Chernobyl Diaries - La mutazione
Senza dubbio, il nome che invoglia lo spettatore ad avvicinarsi all’esordio dietro la macchina da presa per Bradley Parker, supervisore agli effetti visivi di "Blood story" (2010) e "I padroni della notte" (2007), è quello di Oren Peli.
Infatti, l’artefice di "Paranormal activity" (2007) non solo è qui coinvolto in vesti di produttore, ma firma insieme a Carey e Shane Van Dyke la sceneggiatura dei circa novanta minuti che, partendo proprio da una sua idea, pongono in scena sei giovani condotti da una guida specializzata in "turismo estremo" a Pripyat, città nella quale vivevano i dipendenti della centrale nucleare di Chernobyl, rimasta disabitata dopo il disastro di oltre venticinque anni prima.
Circa novanta minuti che, una volta tanto, non tentano di ricreare l’effetto reality come vuole la moda cinematografica horror (ri)esplosa dopo il super successo ottenuto dalla citata pellicola che pare abbia spaventato Steven Spielberg; pur sfruttando una camera di ripresa spesso in movimento che poco fa distaccare il look dell’insieme da quello dei reportage giornalistici, man mano che vediamo il gruppetto protagonista impossibilitato a ripartire e destinato a lottare per la sopravvivenza.
Perché, al di là dell’improvvisa entrata in scena di fauna rappresentata da orsi e cani, è qualcosa di ben più temibile a nascondersi tra le tetre rovine del posto al fine di aspettare il momento opportuno per irrompere e portare paura e morte.
Qualcosa che non vediamo per la quasi totalità dell’operazione, in quanto Parker punta principalmente a giocare di continuo sulla situazione di assedio da parte di quello che, appunto, non viene immortalato con facilità, assumendo a suo modo i connotati di un "male invisibile".
E bisogna ammettere che confeziona il tutto sfoggiando una non disprezzabile tecnica, ma, sebbene il movimento sia onnipresente, il risultato finale è un noioso, continuo vagare che, piuttosto prevedibile, si rivela incapace di regalare qualcosa di nuovo. Spingendo a pensare che, con ogni probabilità, un po’ di fantasia nell’inscenare le varie morti sarebbe stata necessaria; almeno per regalare quel liberatorio brivido proto-slasher di cui il pubblico amante del genere va nella maggior parte dei casi alla ricerca.
La frase:
"E’ una leggenda metropolitana, dicono che qui c’è ancora qualcuno".
a cura di Francesco Lomuscio
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