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Captive StateLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Lomuscio21 marzo 2019Voto: 5.5
In fatto di scenari apocalittici, il britannico classe 1972 Rupert Wyatt aveva già provveduto a deliziarci attraverso la fase conclusiva de “L’alba del pianeta delle scimmie”, prequel della mitica saga iniziata alla fine degli anni Sessanta da Franklin J. Shaffner.
Considerando Philip K. Dick uno dei più grandi scrittori di fantascienza di tutti i tempi, in quanto capace di raccontare storie in cui noi come società riusciamo a immedesimarci, è prendendo ispirazione da ciò che sta accadendo dal punto di vista sociale e politico nel mondo d’inizio terzo millennio che Wyatt mette stavolta in piedi quella che definisce “una storia di occupazione aliena”, più che una storia d’invasione aliena. Ed è una volta superato un movimentato prologo con arrivo degli invasori nella Chicago del 2016 che sposta l’ambientazione a nove anni più tardi, in un’America in cui gli extraterrestri hanno provveduto a rendere inutilizzabile qualsiasi apparecchiatura elettronica o digitale, dai veicoli ai telefoni cellulari, passando per i computer, ovvero tutto ciò che è indispensabile per le comunicazioni e l’esistenza dell’umanità. Un’ambientazione che si lascia in un certo senso interpretare in aria di allegoria riguardante il sempre più dilagante dramma del terrorismo e che, considerando la presenza di John Goodman nei panni di un veterano poliziotto tenacemente impegnato ad indagare su un gruppo di ribelli che tentano di porre fine all’invasione mettendo fuori uso il sistema di tracciamento alieno posto in cima alla Sears Tower, in un primo momento viene quasi voglia di intendere in qualità di continuazione di “Ten Cloverfield lane” di Dan Trachtenberg. Ma non si tratta dell’unica similitudine cinematografica avvertibile, perché, se da un lato il miscuglio generale di vicenda fantascientifica e (sotto)testi politico-sociali spinge ad accostare la circa ora e cinquanta di visione a “District 9” di Neill Blomkamp, dall’altro il cast quasi all black sembra richiamare alla memoria “La prima notte del giudizio” di Gerard McMurray. Del resto, al di là di una Vera Farmiga dal misterioso passato e che ha assunto l’identità di una escort, i personaggi principali della vicenda sono i due fratelli incarnati dall’Ashton Sanders di “Moonlight” e dal Jonathan Majors di “Cocaine – La vera storia di White Boy Rick”, separati per molto tempo a seguito dell’arrivo delle creature spaziali e destinati a riunirsi solo quando il maggiore di essi si trova a guidare, appunto, il gruppo di rivoluzionari che mira alla liberazione della razza umana. Di conseguenza, risulta piuttosto difficile trovare un minimo di originalità all’interno di “Captive state”, in cui l’espediente fantascientifico non occorre altro che a raccontare i pericoli che corrono oggigiorno le libertà civili e il ruolo del dissenso all’interno di una società autoritaria. Sebbene, al di là di questo aspetto, il problema più grande dell’operazione sia riscontrabile nel fatto che, nonostante l’abbondanza di azione tirata in ballo, appaia decisamente difficile individuare una sola situazione memorabile e rimanere realmente coinvolti dalla fruizione... con tanto di spreco di pochi buoni effetti visivi. La frase dal film:
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