Cake
Da qualsiasi lato la si osservi, è chiaro che Claire Bennet (Jennifer Aniston) sta male.
Sta male nel corpo, pieno dei segni di un incidente automobilistico e sta male soprattutto nell'anima perché, in quello stesso incidente, ha perso la vita il suo bambino.
Quello di Claire è un dolore lancinante, che la spinge a chiudersi sempre di più in un universo tutto suo, fatto di cinismo, alcol e antidolorifici, all'interno del quale nessuno è ammesso.
Quando Nina (Anna Kendrick), una ragazza del suo stesso gruppo di auto-aiuto, si toglie la vita gettandosi da un cavalcavia, Claire inizia a considerare l'idea del suicidio fino ad esserne ossessionata.
C'è una parte di lei che però si rifiuta di soggiacere al dolore. E' una parte piccola e ben nascosta sotto i molto strati di indifferenza che la donna frappone tra sé e il mondo esterno, ma c'è e si aggrappa con ostinazione all'idea che un qualche futuro sia possibile anche per lei.
E' evidente, ad esempio, nel modo in cui approccia il marito di Anna e cerca, attraverso il contatto, di rendere un po' più sopportabili due dolori della stessa entità.
Forse l'incontro di questi due mondi, o anche solo i gesti d'affetto di una governante che si rende conto, in realtà, essere quasi un'amica, portano Claire a riprendere lentamente in mano la propria vita o quel che ne rimane.
Piccola premessa.
Il Sundance Festival, oltre a rappresentare una lente spesso valida attraverso la quale valutare lo stato di salute del cinema indipendente americano, è da sempre anche promotore e, in qualche modo, addirittura generatore di un'estetica a cui molti autori con uno stile ancora in via di definizione decidono, volenti o nolenti, di omologarsi.
Detta così potrà anche sembrare una minuzia per cinefili, ma la verità è che ci sono dei precisi e ben codificati sottogeneri che paiono nati ad esclusivo uso e consumo dei frequentatori del Sundance o di rassegne similari.
Uno di questi è il dramedy, sorta di dramma alleggerito con elementi mutuati direttamente dalla commedia.
Questo sottogenere ha, a sua volta, una serie di sottogeneri dei quali uno dei più floridi è quello che pone al centro del racconto l'accettazione di un lutto e, più in generale, il processo di metabolizzazione di un dolore estremo.
Laddove il cinema più propriamente mainstream usa i mezzi che ha nel trattare questo tema e quindi, se si tratta di dramma, si esagera col dramma e giù di lacrimoni a comando (è il caso, ad esempio, del pessimo Third Person di Paul Haggis) oppure, qualora si opti per la commedia, l'elaborazione del lutto diventa un facile veicolo per introspezioni generazionali e/o analisi sulla disfunzionalità di certi rapporti (Il grande freddo di Kasdan, Elizabethtown di Cameron Crowe o, più di recente, l'ancora inedito in Italia This is Where Leave You di Shawn Levy), il cinema indie invece fa il processo esattamente inverso e tratta il tema del dolore lavorando esclusivamente di sottrazione.
Il tentativo è chiaramente quello di non indulgere nel pathos, ma il rischio, in questo caso, è che uno sceneggiatore poco accorto abusi di questo meccanismo eliminando, oltre all'eccesso di emotività, anche la storia.
E' proprio il caso di questo Cake in cui, a parte un'interpretazione maiuscola e francamente inaspettata di Jennifer Aniston, poco o nulla accade.
Tutta l'attenzione dell'opera sembra, infatti, tesa più alla costruzione del personaggio di Claire - attraverso un cinismo ostentato sin dalla primissima scena che porta lo spettatore a empatizzare con lei, ma solo fino a un certo punto - che non alla narrazione stricto sensu.
In quest'ottica Cake appare più come un potenziale strumento di rilancio per una carriera, quella di Jennifer Aniston, ultimamente un po' appannata e forse, perché no, anche per un eventuale nomination agli Oscar.
La performance dell'attrice, insieme a una rappresentazione freddissima di una Los Angeles priva di tutto il glamour che il cinema è abituato ad attribuirle, è davvero l'unico elemento che si possa salvare in un film incredibilmente monocorde, che si trascina stanco per tutti i suoi lunghissimi cento minuti senza avere la minima idea di dove andare a parare.
Nel tentativo di alleggerire la tristezza di una storia che ha la sua stessa ragion d'essere proprio nella tristezza, Daniel Barnz (già regista dell'orrido Beastly) fallisce sia sul versante del dramma, frustrandolo di continuo con una serie di battute forzatamente scorrette, che su quello della commedia amara, troppo amara per riuscire a strappare qualche sorriso.
A tutto ciò si aggiunga poi uno stile visivo così minimale da risultare quasi nullo e il fatto che, sullo schermo, succeda davvero troppo poco.
Non un sussulto o un climax emotivo che sia uno.
Succede talmente poco in questo film che la trama potrebbe essere agevolmente sintetizzata in un "Claire soffre".
Solo che, insieme a Claire, soffre abbastanza anche lo spettatore.
La frase:
"Suonerà strano o pieno di intenzioni inappropriate. Non voglio fare sesso o altro, ma puoi solo stare in camera con me finché non mi addormento?".
a cura di Fabio Giusti
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