Cacciatore di teste
Nella società del benessere del quadro aziendale, il lavoro equivale al mantenimento della villetta con giardino e alla possibilità di cambiare automobile ogni due anni. Ma sempre su un crinale rischioso. Affettivamente, perché per troppo impegno o lunga disoccupazione del coniuge c'è l'eventualità che le mogli tradiscano o lascino. Professionalmente, perché pur capaci, produttivi, ossequiosi e con sorriso obbligatorio, ciò potrebbe non bastare. Infatti, ricevuto un premio per 15 anni di servizio, Bruno (un Josè Garcia perfetto nevrotico, poi schizofrenico e paranoico) viene licenziato. In nome di ristrutturazione, fusione e delocalizzazione. Se per un breve periodo uno stacco funziona da ricostituente, alla lunga però distrugge tutto. Si diventa "obsoleti", e di seguito aggressivi e asociali. Prima si era una tribù, poi gli altri diventano rivali. Anche se il vero nemico sono azionisti e direttori, e nella consapevolezza che "dovremmo combattere insieme invece di scannarci: quelli sopra ridono, anzi non ci vedono nemmeno", dopo tre anni senza trovare lavoro la guerra si scatena contro chi vive una situazione identica alla propria, in quanto pericoloso concorrente. E in guerra il fine giustifica i mezzi, si perde il cuore ed eliminare l'avversario è come fare zapping.

In un contesto da incubo, sentiamo ripetere che i tempi sono duri. Ci sono file per il sussidio, blocchi stradali in difesa del salario, suicidi o folli pensieri di selezione sociale, il crimine "unico settore in pieno sviluppo", TV violenta e volgare, cartelloni pubblicitari di vetture e donne semi-nude.

Co-sceneggiatore a partire dal romanzo "the ax" di Donald Westlake, un caustico Costantin Costa-Gavras nel dirigere il suo sedicesimo film recupera la veemenza del primo e migliore periodo (dove troviamo "Z - L'orgia del potere", "L'affare della sezione speciale" e soprattutto "L'amerikano"). Colpendo con un sorriso angosciato.

La frase: "Ciascuno per sé e nessun dio per tutti".

Federico Raponi

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