Bronson
“Il mio nome è Charles Bronson e per tutta la vita ho cercato di diventare famoso”.
Nonostante il titolo e questa frase d’apertura, non si tratta di un biopic riguardante il compianto attore americano rimasto nella memoria di tutti per aver incarnato il “giustiziere della notte” più famoso dello schermo, anche perché il personaggio che vediamo parlare e che, interpretato dal Tom Hardy di “RocknRolla” (2008), comincia a raccontarci la sua storia, si presenta calvo e con i baffi.
In ogni caso, però, è una storia vera quella affrontata dalla pellicola del danese Nicolas Winding Refn, in seguito premiato a Cannes per “Drive” (2011), in quanto, dopo aver posto davanti all’obiettivo di ripresa questa carismatica figura, della quale Bronson scopriamo presto essere uno pseudonimo, si procede con una serie di flashback volti a ricostruirne la sua tutt’altro che rosea esistenza.
Esistenza che comincia negli anni Cinquanta nei quartieri operai delle città britanniche e destinata a passare per malefatte adolescenziali ed una rapina all’ufficio postale che gli procura una condanna a sette anni di carcere, durante i quali manifesta la sua irrequieta indole con ripetute aggressioni e provocazioni alle guardie.
Esistenza non priva neppure del furto di un anello di fidanzamento in una gioielleria e di una cospirazione per rapina, parallelamente ad un’attività artistica rappresentata dalla scrittura di libri e dalla realizzazione di opere d’arte, che l’autore di “Valhalla rising” (2009), decisamente portato per questo tipo di vicende su celluloide, racconta come se lo stesso protagonista si stesse cimentando in una performance da palcoscenico.
Infatti, al di là di una certa, probabile influenza da “Arancia meccanica” (1971) di Stanley Kubrick, testimoniata soprattutto dall’uso della musica classica come colonna sonora di un contesto decisamente feroce, tra le immagini non è davvero l’ironia ad essere assente.
Un’ironia volta a riconfermare il particolare gusto del regista, il quale, come già accaduto per la sua trilogia “Pusher”, sfrutta la violenza solo al fine di farle fare da sfondo ad un racconto per immagini costruito quasi per intero sui dialoghi, corredandolo, però, di toni vagamente grotteschi.
Per un cinema, quindi, che fa sì ricorso agli elementi tipici della produzione volgarmente definita “commerciale”, ma per sfruttarli all’interno di un dramma rivolto ad un pubblico molto meno vasto e, allo stesso tempo, fortunatamente lontano dai tanti, insostenibili “polpettoni autoriali”.
La frase:
"Sono nato e cresciuto con il nome di Michael Peterson, ma sono più conosciuto con il mio pseudonimo: Charlie Bronson".
a cura di Francesco Lomuscio
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