Batman v Superman: Dawn of Justice
La bugia più vecchia in America è che il potere può essere innocente?
Sotto la produzione del Christopher Nolan che all’uomo pipistrello più famoso delle nuvolette disegnate si era già dedicato dirigendo “Batman begins” (2005), “Il cavaliere oscuro” (2008) e “Il cavaliere oscuro – Il ritorno” (2012), durante i titoli di testa ripercorriamo velocemente la tragica infanzia del playboy miliardario Bruce Wayne; prima di averlo, adulto, con le fattezze di Ben Affleck in mezzo ad edifici che crollano e persone in pericolo nella catastrofe generata dal combattimento tra il kryptoniano Superman e il diabolico generale Zod alias Michael Shannon nella fase finale de “L’uomo d’acciaio” (2013), che vide al timone di regia lo stesso Zack Snyder qui presente dietro la macchina da presa.
E, man mano che ritroviamo in scena Amy Adams nei panni di una Lois Lane immediatamente in pericolo, è per la seconda volta Henry Cavill ad incarnare lo svolazzante Clark Kent di Metropolis, contro cui, appunto, il potente giustiziere di Gotham City si schiera perché timoroso nei confronti di sue incontrollate azioni da supereroe semidio.
Motivazione, quest’ultima, sicuramente spiegata meglio nei fumetti DC Comics che dalla sceneggiatura qui a firma di Chris Terrio e David S. Goyer, non poco ingarbugliata (oltre che tempestata di dialoghi infantili) e volta a ribadire, tra l’altro, che l’essere umano ha creato un mondo dove restare uniti è impossibile.
Un mondo che ha senso solo se lo costringi ad averlo e che, tra terroristi e politica sempre più o meno celata dietro qualsiasi evento, tira in ballo anche la principessa amazzone Wonder woman nel cui costume abbiamo la Gal Gadot di “Codice 999” (2016) e un Alfred interpretato dal vincitore del premio Oscar Jeremy Irons.
Un Irons che – considerando anche un Jesse Eisenberg piuttosto fuori parte nel ricoprire il ruolo del malvagio Lex Luthor – si sarebbe potuto tranquillamente rivelare l’elemento più efficace di un tutt’altro che esaltante cast, se non fosse per il fatto che il suo maggiordomo batmaniano appaia decisamente inutile e poco sfruttato nel corso delle oltre due ore e mezza di visione (un po’ troppe) che non sembrano riuscire a coinvolgere ed emozionare lo spettatore neppure quando ricorrono all’azione ed alla spettacolarità.
Perché, mentre viene giustamente osservato che in una democrazia il bene è il dialogo e non una decisione unilaterale, tra scontri corpo a corpo ed esplosioni non faticano a prevalere la piattezza e la noia tipiche di buona parte dei lavori concepiti dall’autore di “Watchmen” (2009) e “Sucker punch” (2011), il quale, come di consueto, si perde in confusione e fastidioso tripudio di effetti visivi.
Ulteriormente complice l’attesa lotta conclusiva con il gigantesco Doomsday... al cui termine si giunge soltanto consapevoli di un fondamentale aspetto: ciò che nelle mani di maestri della celluloide quali Richard Donner e Tim Burton permetteva al pubblico di sognare, rischia esclusivamente di farlo addormentare quando gestito da sopravvalutati mestieranti formatisi nella sempre più fracassona epoca dei cineVgame.
La frase:
"Sveglia Smallville, la coscienza americana è morta con Robert, Martin e John".
a cura di Francesco Lomuscio
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