American Gangster
Cimentarsi con i gangster’s movies può essere molto pericoloso visti gli illustri precedenti e gli ancor più illustri predecessori. Anche se a farlo è un altro mostro sacro del cinema contemporaneo come Ridley Scott. Il regista inglese non resiste alla tentazione e mette in scena le gesta di Frank Lucas, un nero di provincia trapiantato ad Harlem, che negli anni ’70 divenne il più grande trafficante di droga di New York, soppiantando il primato delle “famiglie” che fino ad allora avevano avuto il dominio assoluto sul losco traffico. La filosofia di Frank era semplice e vincente: vendere droga migliore a metà del prezzo. E per far questo si reca nel Viet-Nam per acquistare a prezzi bassissimi enormi quantità di eroina. Dall’altra parte della barricata, a contrastarlo nelle sue attività, c’è Richie Roberts, un poliziotto integerrimo quanto ostinato pronto a tutto pur di portare a termine la sua missione.

Seguendo la scia di altri grandi narratori di cose mafiose (Coppola e Scorsese su tutti) anche in “American Gangster” si predilige l’etica sull’azione e il plot scritto da Steven Zellian (“Shindler’s List”, “Hannibal”) si indirizza sulle motivazioni e i metodi dei personaggi protagonisti del film, descrivendoci in tal modo i loro profili psicologici affondando la sonda nelle loro manie, paure, tic e frustrazioni. Per raccontare la vera storia di Frank Scott e Richie Roberts, e per coglierne le più riposte sfumature, quindi, Scott si affida a due attori dalla grande personalità come Denzel Washington e Russel Crowe (con il quale il regista inglese gira il suo terzo film), i quali riescono a caratterizzare i loro personaggi con mestiere ed acume. Frank è elegante, scaltro, attento a non commettere il minimo errore, ambizioso e teso con tutto se stesso verso il riscatto da una vita di povertà dalla quale proviene. Dotato di uno spiccato senso della famiglia (ma quale mafioso non lo è?), è capace di intessere proficue relazioni con chiunque. Richie invece è sciatto e squinternato, isolato dai suoi colleghi, incapace di impegnarsi in una relazione fissa. Il confronto tra i due, che peraltro si ignorano per tre quarti del film, è probabilmente la cosa migliore dell’opera.
Accomunati da un carattere ostinato e pervicace, la sintesi delle loro personalità rappresenterà poi la soluzione finale delle loro vicende.
Detto questo, però, non si può non tacere la sensazione di “già visto” (poco o nulla aggiunge a quello che già sapevamo su come vive un malavitoso e quale è la sua fine nove volte su dieci) ma soprattutto, a noi innamorati di “Quei bravi ragazzi”, ci manca la poesia di quel sugo preparato in una cella di una prigione o l’epopea racchiusa in una battuta sussurrata nella penombra di uno studio elegantemente arredato e dal cui contenuto poteva dipendere la vita di un uomo.

La frase: "Mai mettersi qualcosa di troppo vistoso se non vuoi farti beccare.".

Daniele Sesti

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