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Una famigliaLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Rosanna Donato04 settembre 2017Voto: 2.0
Presentato In Concorso alla 74a Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, “Una famiglia” di Sebastiano Riso lascia perplessi sotto ogni punto di vista, dalla sceneggiatura alla regia, fino all’interpretazione che sarebbe meglio dimenticare. Il film racconta la storia di Vincent e Maria. Il primo ha origini parigine, ma ha tagliato ogni legame con le sue radici. Maria, più giovane di quindici anni, è cresciuta a Ostia, ma non vede più la sua famiglia da troppo tempo. I due vivono una quotidianità all’apparenza normale, che però lascia trapelare un terribile progetto di vita portato avanti da lui con determinazione e da lei accettato in virtù di un amore senza condizioni: aiutare coppie che non possono avere figli, vendendo a queste ultime i loro. Arrivata a quella che il suo istinto le dice essere l’ultima gravidanza, Maria decide che è giunto il momento di formare una vera famiglia, ma Vincent la vede diversamente… Presto infatti troverà una nuova coppia, omosessuale, a cui vedere il prossimo bambino.
Talvolta è necessario parlare di temi così attuali e importanti. Il problema però si verifica nel momento in cui essi non vengono affrontati con il giusto equilibro e una tecnica che metta in risalto la drammaticità dell’evento. Una donna innamorata, succube del “compagno”, che ha avuto un’infanzia difficile e adesso vorrebbe soltanto raggiungere la felicità. Una felicità che solo la creazione di una famiglia potrebbe darle. “Una famiglia” di Sebastiano Riso affronta il tema della maternità, ma anche della speranza e della difficoltà nel reagire a determinate situazioni quando si è innamorati, evidenziando una condizione di sottomissione della donna che farebbe rabbrividire tutte le persone che ogni giorno combattono e hanno combattuto per ottenere l’emancipazione. La regia di Riso non convince affatto: il regista vorrebbe coinvolgere emotivamente il pubblico con inquadrature in primo piano riprese attraverso una camera a mano, ma non ci riesce. La macchina sembra non lasciare spazio né agli interpreti, né al contesto in cui si svolgono i fatti. Questo poiché pare volersi intromettere con insistenza nelle scene, come volesse far parte di esse e stare “addosso” ai personaggi, dando così una sensazione di claustrofobia al pubblico. La sceneggiatura è scialba: contiene dialoghi talmente inconsistenti che se non esistessero, non sarebbe una grave perdita. Un miscuglio di banalità e cliché ingiustificabili, come del resto lo è tutta la pellicola. Ma non sono solo questi i problemi legati al film con Micaela Ramazzotti (Maria) e Patrick Bruel (Vincenzo). Da bocciare è anche l’interpretazione di quest’ultimo attore, il quale non riesce a dare il giusto spessore al suo personaggio e pare leggere le battute sul momento. Non è da meno la Ramazzotti, che interpreta una figura così tormentata dalla voglia di avere un bambino tutto suo che risulta non solo sopra le righe, ma anche ridicola. Un personaggio che non riesce in alcun modo ad empatizzare con il pubblico, nonostante il tema di fondo. Troppo concentrata sulla drammaticità, l’attrice, tanto da perdere di credibilità e naturalezza. Piange, soffre, raramente sorride. Espressiva sì, ma quando c’è troppa “euforia” nell’impersonare una figura di così grande spessore, non sempre il risultato finale è dei migliori. Si assiste addirittura a scene imbarazzanti, a situazioni che non stanno né in cielo né in terra, a scene senza senso, a tante cose messe lì, a caso, come a voler allungare il brodo. Un brodo caratterizzato da un ritmo narrativo eccessivamente lento, che stanca il pubblico sin dai primi minuti ed appiattisce notevolmente l’intera pellicola. La frase dal film:
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