Una ballata bianca
Due sedie vuote, rumore di passi trascinati di pantofole e carta sfogliata. Questa la pregnante apertura sugli ultimi momenti di un’anziana coppia. Stefano Odoardi ha firmato una decina di premiati corti oltre che dipinti, video-arte, installazioni e un lungometraggio ispirato all’autore concettuale Joseph Beuys, presentato in diversi musei. Per "Una ballata bianca", il cineasta si ispira all’omonimo testo teatrale dell’attore, scrittore e regista Kees Roorda, con cui aveva collaborato. Ha radunato quarantamila euro, pellicola scaduta da tempo, un cast che ha lavorato gratuitamente ottenendo diritti sull’opera, e per protagonisti il proprio calzolaio con moglie - entrambi ottantenni, sposati da 60 e ripresi dentro la loro casa - che hanno dato al film anche una direzione, in virtù di un quotidiano confrontarsi con la morte.
La solitudine a due dell’incomunicabilità, delle promesse mancate e di figli non avuti aumenta “l’ansia di essere dimenticati. Questa è di certo la cosa peggiore”. E diventa quasi stato di trance grazie a una macchina da presa fissa, l’Abruzzo degli imponenti panorami immutabili, una musica che copre i rumori aumentando il senso di distanza, la tonalità verdognola delle prime fotografie a colori, la mobile frammentarietà poetica preferita alla prosa lineare. Tra lente e meticolose azioni domestiche, emergono visioni, ricordi parcellizzati, chiusi come istantanee in barattoli di vetro, e impressioni fuori campo. All’esterno, rovine di un paese abbandonato, un cavalcavia interrotto, una donna in antico abito nero, un campo di quei girasoli che un tempo lui donava a lei e ormai secchi. Nella scura eleganza di un addìo, la compagna di una vita attende su una strada sterrata, mentre l’uomo danza forse con una dama fantasma, cantandole dichiarazioni che si perdono nel vento.
La frase: "Quello che mi piace di più in lui sono i suoi difetti".
Federico Raponi
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