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Wolverine: l'immortale











Mentre in "X-Men: Le origini-Wolverine" (2009) di Gavin Hood venne fatta luce sulla genesi del supereroe che fece la sua prima apparizione, nel lontano 1974, in un numero del fumetto "L’incredibile Hulk", questo secondo lungometraggio – a differenza di quanto si potrebbe pensare – non è la sua continuazione, ma un tassello che, diretto in 3D da James Mangold, si pone cronologicamente dopo "X-Men - Conflitto finale" (2006) di Brett Ratner.
Tassello che, partendo da un prologo immediatamente all’insegna del movimento e non privo di toni quasi horror, immerge l’uomo dagli artigli di adamantio con il volto di Hugh Jackman in un Giappone tempestato di yakuza e guerrieri dalla spada dove, impegnato a confrontarsi con la propria mortalità, intraprende una lunga fuga insieme alla misteriosa ereditiera Yukio alias Rila Fukushima.
Fuga che, tra una emozionante sequenza d’azione durante un funerale tempestata di scontri corpo a corpo, lame affilate e pallottole volanti e un’altra che si svolge sul tetto di un treno in corsa, arriva a tirare in ballo anche Viper, ingannevole mutante dagli occhi verdi cui concede anima e corpo la russa Svetlana Khodchenkova.
Man mano che, senza escludere un’indispensabile spruzzata d’ironia (citiamo solo la "visita" al Ministro della giustizia impegnato in un festino con fanciulle poco vestite e la battuta della piscina che sembra omaggiare il bondiano "007 - Una cascata di diamanti"), si procede approdando a conflitti sulla neve ed a una lotta finale contro il robotico Silver Samurai.
Fino a un’ultima situazione a sorpresa posta durante i titoli di coda di quello che, caratterizzato da una visione tridimensionale del tutto inutile, risulta talmente distaccato da quanto raccontato nelle vicende disegnate da riuscire difficilmente nell’impresa di non lasciare delusi gli amanti delle nuvolette su carta; presentando allo stesso tempo, però, il look di un discretamente ritmato action movie a stelle e strisce senza infamia e senza lode atto di sicuro a scimmiottare analoghe produzioni orientali, ma non rientrante tra i peggiori lavori di Mangold, la cui filmografia alterna capolavori sottostimati del calibro di "Identità" (2003) a fiacchissimi elaborati sopravvalutati come "Quando l’amore brucia l’anima" (2005).

La frase:
"Un uomo che ha incubi ogni notte della sua vita è un uomo che soffre".

a cura di Francesco Lomuscio

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