The red shoes
E' ormai chiaro che, a partire dal 2003, anno in cui abbiamo avuto modo di vedere nelle sale cinematografiche italiane il remake a stelle e strisce di Ring di Hideo Nakata, anche nel nostro paese ha cominciato a diffondersi un particolare interesse nei confronti del cinema horror di matrice orientale. Ma, a quanto pare, i distributori nostrani hanno provveduto a farci conoscere non solo il J-horror, ovvero l'horror giapponese, ma anche quello proveniente da altri paesi del Sol Levante, grazie probabilmente al successo ottenuto dal coreano The eye (2002) di Oxide e Danny Pang. Quindi la Medusa, che in fatto di storie del terrore prodotte dalla Corea del Sud già si era preoccupata di lanciare nel paese degli spaghetti il Two sisters (2003) di Ji-woon Kim, ci propone ora The red shoes, secondo lungometraggio di Yong - gyun Kim, il cui curriculum artistico comprende il dramma romantico Wanee wa Junah (2001) ed una manciata di cortometraggi premiati in vari festival. Interprete principale del film è Hye - su Kim, la quale veste i panni di un'oculista che, allontanatasi dal marito fedigrafo, va' a vivere in un'altra città insieme alla figlia di sei anni Tae-soo, con il volto dell'esordiente Yeon - ah Park, dove fa conoscenza con un architetto, ricordando non poco le due protagoniste del nakatiano Dark water (2002). Ma, come ogni storia di paura con gli occhi a mandorla che si rispetti, al centro della vicenda abbiamo un oggetto legato ad una particolare maledizione; quindi, se nel succitato Ring si narrava di una letale videocassetta ed i successivi Phone (2002) e The call-Non rispondere (2003) hanno fatto sfoggio di pericolosi telefoni cellulari, The red shoes, come il titolo lascia intuire, si concentra su un paio di scarpe rosse che la protagonista, collezionista di calzature, trova in metropolitana, le quali, a sua insaputa, portano alla morte chiunque le rubi.
E' subito evidente, quindi, che il film sia una moderna rilettura (e con molto sangue) di Scarpette rosse, crudele fiaba scritta da Hans Cristian Andersen in cui una ragazzina si ritrova con i piedi tagliati all'altezza delle caviglie, al fine di rappresentare allegoricamente su celluloide l'avidità delle persone; e Yong - gyun Kim, oltre a trattare il tema del tradimento, introduce in maniera originale dei momenti di ballo, utili per svelare il mistero che ruota attorno alle misteriose scarpe, mentre un'anziana figura si aggira per la città, infittendo la trama. Purtroppo, però, pur riuscendo a generare inquietudine in più di un'occasione, supportato soprattutto dalla non disprezzabile fotografia di Kim Tae-Kyung e dal buon lavoro scenografico svolto da Lim Hyung-tae e Jang Pak-ha, finisce per sfruttare eccessivamente situazioni e luoghi comuni del genere in questione, ricordando non solo i prodotti orientali degli ultimi anni, ma anche titoli come Shining (1980) e Suspiria (1977). In conclusione, quindi, si ha la netta impressione di avere appena assistito al noioso assemblaggio dei momenti caldi di noti cult-movies della paura, ed al tutto non giovano certo i classici, lenti ritmi che caratterizzano questo tipo di produzioni.

La frase: "Chiunque rubi quelle scarpe deve morire, nessuno si salverà".

Mirko Lomuscio

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