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The Irishman

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Pozzo06 novembre 2019Voto: 10.0
 

  • Foto dal film The Irishman
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Se c’è una cosa che viene inevitabile associare al cinema di Martin Scorsese, dall’inizio del suo percorso fino ad oggi, è l’energia. O meglio, quell’alternarsi di energia frenetica e silente tensione spirituale che si leva inarrestabile fino ad un attimo di distensione prima della deflagrante esplosione successiva, una corrente vorticosa e travolgente che è diventata uno dei tratti distintivi della sua poetica e che ha raggiunto in The Wolf of Wall Street vette psichedeliche e vertiginose, un ritmo che nella sua caleidoscopica e visionaria follia è riuscito a restituirci perfettamente la confusione e il caos etico ed emotivo di quelle persone e di quel milieu portandoci nelle loro teste e nei loro pensieri, nei tormenti e nelle nevrosi di un microcosmo d’individui senza leggi o vie di salvezza eppure mai così umani e complessi, incorniciandoli e raccontandoceli con quella passione e quella fiamma vitale ed incandescente che anche in film sacri e ponderati come Silence o L’ultima tentazione di Cristo era visibile e concretamente palpabile anche all’occhio meno esperto e che riusciva a scuoterci e ad illuminarci nel profondo ridimensionando totalmente le nostre certezze di spettatori.

E già con Quei bravi ragazzi, distanziandosi saggiamente da un capolavoro assoluto come Il Padrino che della mafia ci ha raccontato con fervore ed intelligenza l’epicità e la miticità, Scorsese ne ha analizzato con precisione chirurgica e lucidità sorprendente la sua banale quotidianità, lo svolgersi dei riti e dei rituali alternato all’analisi dei vizi e dei conflitti ribollenti, delle sottigliezze verbali e di quelle culinarie, un’osservazione entomologica e quasi documentaristica che si trasformava lentamente in un’elettrizzante corsa contro il tempo che fagocitava tutto e tutti lasciandoci sì turbati e nauseati, ma in cui potevamo anche scorgere la spregiudicatezza e l’adrenalina, l’incoscienza e il fascino perverso del crimine e della sua contagiosa e mortuaria energia fino alla geniale citazione finale de La grande rapina al treno, con il beffardo fantasma di Joe Pesci che sparava dritto contro il traditore Ray Liotta e di riflesso contro di noi.

Salto al 2019: tutto è cambiato.

Scorsese, piaccia o meno, è diventato vecchio, dunque più saggio e malinconico, le atmosfere sono plumbee, i colori lividi ed opprimenti e le sue priorità sembrano in qualche modo mutate definitivamente. Certo, le storie che gli interessano, inscindibili dal suo percorso di maturazione di individuo nato e cresciuto fra i quartieri malavitosi di Little Italy che tante volte ha raccontato e magnificamente trasfigurato sul grande schermo sono sempre le stesse e sono parte integrante ed inestricabile del suo sguardo e della sua arte, ma sono cambiate le modalità di rappresentazione e anche, forse, la sua visione del mondo: non più dunque un’esuberante follia, ma una limpida classicità. Non è certo un caso infatti che in questo cinereo e monumentale epicedio non vi sia spazio per la frenesia ma solo per dolore e sussurrati rimpianti, sentimenti generati da un’amara coscienza della limitatezza delle nostre vite e delle nostre azioni sulla terra e dalla penosa consapevolezza di aver fatto il proprio tempo, di esser giunti alla fine della corsa e della propria epoca senza molto di cui andar fieri e senza nessuno al proprio fianco angosciati quando non totalmente sopraffatti dal buio dei nostri pensieri che si propaga nei silenzi delle nostre stanze.

Ciò che salta subito all’occhio all’inizio di questa splendida e mai così terrena e crepuscolare epopea criminale è come facilmente intuibile l’effetto di ringiovanimento applicato su Pesci e compari, invero gommoso e ancora molto lontano dalla millantata perfezione, un difetto minore a cui ci si abitua tuttavia abbastanza in fretta: la cosa a cui ci si abitua meno, invece, sono gli argentei e disorientanti occhi di Robert De Niro, scelta che gli conferisce immediatamente e forse un po’ goffamente una straniante aura di esangue figura vampiresca di ritorno fra i vivi per mietere vittime con fare robotico e senz’ombra di pentimento.

Poi, però, capiamo la genialità della scelta. Perché The Irishman è proprio questo: un film di fantasmi e anime morte, il racconto nero e senza addolcimenti di quei freddi esecutori del crimine che commettevano atrocità di ogni sorta senza alcun dilemma morale e che la digitalizzazione (colpo di genio o di fortuna?), soprattutto nelle movenze, svuota e meccanizza ancora di più. “Le azioni erano mostruose, ma chi le faceva era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”, scriveva Hannah Arendt nella sua Banalità del Male a proposito degli insospettabili e appunto banali macellai del Terzo Reich, un pensiero che viene naturale associare ai grigi ed impassibili operai del crimine dello spettrale e dissoluto universo che Scorsese mette in scena.

Ma The Irishman è anche, ovviamente, molto altro: in primis uno dei più dolenti e stupefacenti film sulla vecchiaia che si ricordino (ma c'é anche spazio per una strabiliante citazione ai variopinti bouquets di Vertigo), un magnum opus che lambisce le vette trascendenti de Il posto delle fragole e Umberto D intrecciandosi però ad un meraviglioso discorso sulla banalità del male e sulla futilità delle imprese umane e del tempo che è come una lavagna su cui tutto si cancella, un gelido ragionamento senza enfasi né spettacolarizzazioni e illusioni inutili su come ognuno di noi sia destinato a passare e ad andarsene senza lasciar traccia (folgoranti le didascalie con le cause di morte – ovviamente violenta - che introducono ogni personaggio) e su come le nostre azioni si ripercuotano inevitabilmente su chi resta e su chi ci è stato vicino sopportandoci in silenzio, su quelle anime deboli destinate a soccombere stritolate dai tentacoli del male e dei suoi esecutori e falsamente protette da un’ipocrita coperta di menzogne e false speranze.

Ecco perché questo fosco ed eterno epitaffio, che per metà della sua durata sfiora il sublime e che nel finale lo raggiunge gloriosamente con un epilogo di lirica e abbacinante bellezza può realmente definirsi il Barry Lyndon di Scorsese: non certo per inesistenti somiglianze stilistiche o tematiche, ma perché ci riporta violentemente coi piedi per terra ridimensionando le nostre convinzioni e aprendoci gli occhi come faceva Padre Ferreira col giovane Padre Rodrigues nel finale di Silence, ricordandoci che tutto passa come la corrente di un fiume e che buoni o cattivi, belli o brutti e ricchi o poveri, davanti alla morte saremo tutti uguali.

“It is what it is”, ripete infatti con tenue e solenne distacco un colossale e stranamente serafico Joe Pesci (una delle più grandi performance a memoria di cinefilo) mentre la storia del film e quella dell’America s’aggrovigliano ed alimentano brillantemente grazie alla sapienza di un maestro che coadiuvato anche dalla libertà assoluta offertagli da Netflix sonda con acume e senza fretta ogni anfratto dell’anima del suo Paese e del suo universo gangsteristico ricordandoci ancora una volta il piacere sempre più raro di perdersi nel racconto di un grande narratore che si sofferma ad esplorare con pacata rilassatezza anche i minimi dettagli delle sue creature e dei loro ambienti prendendoci per mano e conducendoci lentamente a quel tragico ed inesorabile avvenimento che proprio come il destino di Sharon Tate nell’ultimo capolavoro di Tarantino (parlando di maestri) sappiamo fin dal principio che arriverà, ovvero l’agghiacciante ed inesprimibile orrore rappresentato dalla fulminea uccisione di Jimmy Hoffa, un momento straziante e definitivo che cambierà per sempre le vite di tutti e un dolore dinnanzi al quale nemmeno un algido e insospettabile tecnico del male come quello meravigliosamente interpretato da De Niro potrà esimersi ed uscire indenne (un uomo, Frank Sheeran, che provato forse da tutte le guerre e le violenze che hanno costellato la sua vita, non prova semplicemente nulla), e questo perché capiamo che il fondo, questa volta, è stato irrimediabilmente toccato (“Non si torna indietro”, diceva sempre Pacino in Carlito’s Way…), che anche l’ultimo vincolo sacro ed invalicabile, quello dell’amicizia, è caduto come una foglia, e che nemmeno un’anima perduta come quella di Frank potrà riuscire a superare quest’atroce ed opprimente consapevolezza camuffando la commozione e lo strazio stritolante in una telefonata che è uno dei momenti più alti e veritieri del film.

E se la religione è naturalmente sempre lì, costante scorsesiana che accompagna incessantemente le nostre vite e quelle di coloro che ci gravitano attorno, ci rendiamo conto molto in fretta che non potrebbe esserci nulla di più remoto e distante, quando non totalmente astratto, dalle vite di questi tetri e svuotati personaggi, ombre di un lugubre passato che nemmeno nel momento della fine imminente riescono ad intravedere un pentimento o una flebile luce di salvezza, una dimensione spirituale o un qualcosa di etereo a cui aggrapparsi che conduca ad una sorta di redenzione od apparente elevazione morale, ad un rimorso o ad un senso di colpa tutto riversato, invece, sull’acquiescenza delle loro famiglie (assolutamente sublime la scelta di non far parlare la figlia e le donne del racconto affidando ogni emozione a sguardi e silenzi carichi di dolore che ricordano quelli delle madonne sofferenti delle pitture rinascimentali).

E alla fine del percorso infatti non c’è niente, solo il vuoto e l’amarezza di persone morte dentro a cui Scorsese, grazie alla sua profonda ed infinita pietas e saggezza di uomo e di cineasta, riesce ad offrire una dimensione di fragile tenerezza ed intima vulnerabilità come quando inquadra Joe Pesci in carrozzina che nella vecchiaia torna bambino, in una conclusione di una bellezza tersa e senza tempo che ricorda gli spazi cristallini di 2001: Odissea nello Spazio e il ritorno alle origini della vita e dei nostri percorsi.

The Irishman è una delle più immense e luminose vette della filmografia di Scorsese, un capolavoro limpido e complesso al tempo stesso e una delle sue opere più sommesse e dolorose, un esempio prezioso e rilucente di un cinema fuori dal tempo e una ponderata riflessione di funerea ed inaudita maturità sul peso della memoria e sulla caducità delle nostre vite, il viaggio epocale e testamentario di un grande vecchio che ci parla con franchezza ed umanità sorprendenti della senescenza e della morte che arriva per tutti, delle persone e degli affetti che spazziamo via o ci lasciamo alle spalle e della Storia che ci inghiotte senza pietà né distinzioni di sorta, la pellicola definitiva di un uomo straordinario che ad ogni nuovo film scrive un pezzo di storia del cinema e che riesce ad elevare magistralmente anche uno sguardo o un non detto, un silenzio o un volto di dolore su una lapide alabastrina, con una sequenza finale che si colloca lì, fra la porta semichiusa di Sentieri selvaggi e quella chiusa per sempre del Padrino, uno dei momenti più abbaglianti visti al buio di una sala cinematografica e uno di quei pochissimi attimi in cui ognuno di noi può rivedere se stesso e la propria vita facendone tesoro, forse, per quel che verrà.

La verità è che il cinema di Scorsese tocca qualcosa di profondo ed inesprimibile, una dimensione sacra ed intangibile impossibile da elaborare o sviscerare a parole e che in pochissimi, nel cinema come in tutte le arti, riescono a raggiungere. Un qualcosa, possiamo dirlo, di miracoloso. Ciò che conta, però, è che ci riesce sempre: è questo che abbiamo trovato in Bergman e Bresson imparando ad amare quest’arte meravigliosa che ha cambiato le nostre vite ed è questo che ritroviamo oggi nei suoi film.

Ed è proprio questo che distingue i bravi registi dai grandi maestri.


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