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L'infanzia di un capo



Quando per scavare ci vorrebbe più testa e meno foga.
Il film è un opera di ricerca che il giovane regista statunitense compie, ispirandosi ad un racconto di Jean-Paul Sartre, nel tentativo di rappresentare una sorta di genealogia del male dittatoriale, una mostra ad effetto della grande incubatrice domestica che ha genericamente preparato nei primi anni del novecento l'ascesa di alcuni tra i più sanguinari dittatori che la storia abbia mai conosciuto. Tutto questo mediante le cronache di un giovane rampollo di una famiglia americana trasferitasi in Francia al termine del primo grande conflitto mondiale.
Il lavoro di Brady Corbet ha una natura involontariamente altalenante, soffusa, labile, supportata certamente in modo deciso da un bagaglio di approfondimenti e speculazioni di carattere filosofico-psicanalitico che illudono e non convincono del tutto.
Gli scatti d'ira un po' macchinosi del piccolo Prescott (questo il nome del ragazzino interpretato da Tom Sweet) e le presenze poco chiarificanti della madre e del padre (rispettivamente Bérénice Bejo e Liam Cunningham) rappresentano il nucleo caldo di una vicenda che, più di ogni altra cosa, si potrebbe definire (o si vorrebbe definire) “paradigmatica”, permeata di simbolismi che richiamano a considerazioni su quali siano le strutture antropologiche del fascismo (o dei fascismi, perché cercare di avvicinare alla pellicola la specifica biografia di un fuhrer o un duce a caso sarebbe francamente poco saggio).
Il problema è forse l'eccessiva fretta di trovare una cifra espressiva che sia filo-europea (cinematograficamente parlando) e che abbia ben presente tutta l'eredità culturale che pulsa nel cinema europeo fin dagli albori: molto semplicemente, chi ha avanzato parallelismi con la violenza esteticamente esplosiva di Michael Haneke ha, con tutto il rispetto, commesso una grossa violenza al buon senso dello spettatore (per ora l'unica cosa che i due hanno in comune è il Funny Games del 2008 in cui Corbet recitava). Questo perché il regista austriaco parla di educazione conoscendo molto bene i sistemi educativi, parla di repressione conoscendo molto bene i sistemi repressivi, riflette sulla tortura e sulla deviazione psichica conoscendo molto bene la materia che va a trattare (esemplare in questo “Il nastro bianco” e la sconvolgente analisi della dicotomia infantile tra purezza e perversione). Al confronto, e la cosa non sorprende, “The childhood of a leader” (che partecipa alla Mostra per nella sezione Orizzonti, va ricordato) non può che impallidire.
Ad ogni modo gli intenti sono nobili e la capacità di scegliere una strada impervia e di arrivare comunque a destinazione (anche se pieno di ferite) giocano a favore di Corbet e lasciano ben sperare per i suoi lavori futuri.
Nel cast è presente, anche se davvero per poco, anche un Robert Pattinson parecchio spento e ancora in cerca del salto di qualità (non che questo film fosse l'occasione giusta, questo quasi sicuramente era chiaro anche a lui).
Per parlare del male senza ripiegare nella rappresentazione iconografico-mistica, senza gettarsi in un battesimo di fuoco un po' splatter, è fondamentale orchestrare tutto l'impianto visivo con estrema cura dei dettagli, con la freddezza ma la spietatezza giusta per far coincidere il grande mondo speculativo con le esigenze che questo modo di “far cinema” richiede. La prossima andrà meglio.

a cura di Riccardo Favaro

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