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The Bad BatchLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Rosanna Donato06 settembre 2016Voto: 6.0
The Bad Batch è il western apocalittico della regista iraniano-americana Ana Lily Amirpour, che torna alla regia dopo il successo ottenuto con “A Girl Walks Home Alone at Night”.
Presentato in Concorso alla 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, vede come protagonista Arlen (Suki Waterhouse), una ragazza che si ritrova incarcerata in un immaginario campo di prigionia situato in un deserto texano, a sud degli Stati Uniti, in un territorio fuori dalla giurisdizione USA. Non si conosce il motivo per il quale la donna sia stata considerata ‘inaccettabile’ dalla comunità americana, ma sappiamo che in quella zona, composta perlopiù da ciò che c’è di più basso al mondo, Arlen viene inseguita e catturata, prima di essere privata del braccio e della gamba destra da un gruppo di persone che si ciba di carne umana per sopravvivere. Riuscita a scappare da quel campo, la ragazza si ritrova da sola nel deserto, dove un eremita - vedendola in estrema difficoltà - la porta a Comfort. Il luogo è guidato dal leader della comunità “pacifica” (Reeves), The Dreamer, che nasconde un lato oscuro. Ora tocca a Arlen decidere quale esistenza sia meglio vivere, in un mondo dove niente è come sembra. Un mondo post-apocalittico, dove le persone vengono numerate come fossero all’interno di un campo di concentramento nazista e sono guidate da regole proprie. Dovrebbe essere questo l’argomento centrale del film, ma Ana Lily Amirpour riesce nel suo intento solo in parte. La pellicola si apre con una scena che, per quanto macabra e inquietante, sembrava aver colto nel segno ciò che il pubblico si aspettava di vedere in un progetto che vede protagonista un cast d’eccezione. Purtroppo le speranze non sono state soddisfatte, in quanto - dopo un primo momento di ciò che si può definire un mix perfetto tra horror e splatter - il film prende una strada molto diversa, mischiando vari generi e cadendo inesorabilmente verso l’appiattimento più totale. Eppure, i presupposti perché ne uscisse una pellicola degna di essere chiamata tale c’erano tutti, ma la regista non ha saputo sfruttarne le potenzialità. Il lungometraggio ha alla base un’idea originale, ma si basa su una sceneggiatura di Amirpour alquanto povera di dialoghi e ricca di lunghi silenzi incomprensibili. Nonostante sia chiara la volontà di mettere in evidenza l’ambiente in cui si svolge la storia, facendone risaltare le peculiarità e creando nello spettatore uno stato di leggero disagio (scelta che ci ha colpiti positivamente), la regista ha scelto di dare vita a un film caratterizzato da un andamento lento, pure fin troppo. Il problema sta nel fatto che una pellicola realizzata mischiando generi differenti non solo richiede una buona dose di suspance (qui presente solo all’inizio e a tratti nel corso della narrazione) e un andamento incalzante - teso a non lasciare tregua al cuore dello spettatore in termini di emozioni - ma deve anche riuscire a mantenere l’attenzione dello spettatore. Questi elementi, però, sono presenti solo nei primi 20 minuti circa di proiezione (in realtà il ritmo non è mai veloce come dovrebbe essere). Si passa da scene di forte impatto a momenti di stallo a dir poco soporiferi: dov’è finita quella tensione psicologica che aveva lasciato la critica di stucco, tanto da indurre alcuni a lasciare la sala e altri a rimanere incollati alla sedia? Tanta carne al fuoco, ma poca sostanza. Circa due ore di film in cui le scene veramente importanti ai fini della narrazione erano davvero poche e ricoprivano circa un’ora del tempo totale. Che le altre servissero solo da riempimento? E’ facile pensarlo, perché la regista è chiaramente interessata a basare l’intera pellicola sull’espressività dei personaggi coinvolti. A dimostrazione di ciò, possiamo citare il ruolo secondario del quasi irriconoscibile Jim Carrey (l’eremita), che in tutte le sue apparizioni non ha detto neanche una battuta, ma ha cercato di farsi capire con i gesti. Una scelta che ha lasciato il pubblico sgomento visto l’elevata statura dell’attore, il quale ha dimostrato che a volte non servono le parole per farsi capire. Anche Keanu Reeves e Jason Momoa (perfetto nel suo ruolo di cannibale diviso tra sopravvivenza e amore per la figlia), con la loro notevole interpretazione, hanno contribuito a salvare - almeno in parte - il film, la cui interprete principale è forse il personaggio meno carismatico: una ragazza fredda, impassibile, che pare essere abituata al dolore in quanto non mostra alcun segno di sofferenza nelle situazioni più difficili e dolorose. Un atteggiamento quasi surreale il suo, soprattutto visto gli sviluppi che prenderà successivamente la trama, la quale risulta difficile da comprendere nel suo insieme. Meritano, invece, la colonna sonora - che spesso fa da contraltare alla lentezza della storia risvegliando il pubblico in sala - e uno dei suoi messaggi più importanti: l’apparenza inganna. Probabilmente l’autrice avrebbe dovuto concedere più spazio ai personaggi di Carrey e Reeves, ma nel complesso ogni attore ha fatto la sua parte, anche se non tutte le figure presenti sono state ben caratterizzate (le storie non vengono mai approfondite e il tutto si regge su un unico evento principale e sul contesto, senza il quale la vicenda non avrebbe senso di esistere). Sconsigliamo la visione della pellicola, a meno che non siate particolarmente interessati a una visione metaforica del mondo e della società attuale, dove a sopravvivere è sempre il più forte. La frase dal film:
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