Storia di una ladra di libri
Alla sua prima uscita cinematografica, Brian Percival presenta un film convincente. “La Ladra di libri” è ambientato nella Germania nazista. Siamo alle porte della Seconda guerra mondiale e Liesel (Sophie Nelisse), una bambina di circa dieci anni, viene lasciata dalla madre ebrea ad una famiglia di sconosciuti che ha deciso di adottarla. Ferita dalla morte improvvisa del piccolo fratello e diffidente nei confronti della madre adottiva (Emily Watson), burbera e severa, la protagonista si mostra al principio seria e introversa. Il padre adottivo (Geoffrey Rush), tuttavia, è un uomo buono e allegro e riuscirà a conquistare presto l’affetto di Liesel. Tra i due nasce un affetto sincero che li lega in un’intesa infantile ma al tempo stesso estremamente matura. I rapporti con la madre adottiva, invece, non migliorano fino al verificarsi di un evento drammatico: un giovane ragazzo ebreo, figlio di un vecchio amico di famiglia, bussa alla porta e chiede rifugio. È debole e affamato al punto da cadere svenuto al suolo. Nel periodo necessario alla sua guarigione, la piccola Liesel ruberà dalla ricca libreria di una famiglia presso la quale faceva delle commissioni, alcuni libri che leggerà al giovane ebreo, pur sapendolo semi incosciente. L’amicizia fraterna e commovente che li unisce, tuttavia è messa a rischio dalla terribile situazione politica del paese. Liesel si domanderà presto se l’affetto e il coraggio sono in grado di sopravvivere alla guerra, alla distruzione e all’odio che tutto annienta.
Il tema dell’olocausto è affrontato dalla prospettiva di coloro che lo hanno vissuto indirettamente. Il punto di vista è quello delle persone comuni, non dei perseguitati e ciò rende originale e interessante la rappresentazione. Non è soltanto questo, tuttavia, l’aspetto affascinante del film: il sentiero psicologico e l’intreccio emotivo che si snoda e che avvolge i protagonisti svela una particolare sensibilità degli autori e del regista verso i temi dell’amicizia, dell’amore, della bontà e della disponibilità al sacrificio. Si parla dell’istinto ad aiutare una persona sofferente e si descrive come la natura limpida di alcuni sentimenti possa risultare approfondita dalla disperazione del distacco. Tutto ciò è affrontato con una leggerezza e una poeticità davvero capaci di emozionare il pubblico.
Unici punti deboli sono la scelta del narratore esterno e il finale precipitato. Per quanto riguarda il narratore esterno, è la stessa morte, personificata, a parlare, spesso attraverso sofismi e aforismi di scarsa incidenza letteraria. La scelta registica è decisamente criticabile: ampi tratti del film sono occupati da lunghi monologhi della voce narrante che appesantiscono enormemente le scene più delicate della narrazione (in particolare l’avvio e la conclusione).
Riguardo invece al finale, risulta un po’ ipertrofico. Avvenimenti, immagini e drammi si susseguono a gran velocità dando allo spettatore la sensazione di precipitare insieme agli eventi. Ci si sente storditi e privati dell’intimo piacere di emozionarsi nel vedere conclusa una storia ben raccontata.
Ciò detto, il film è assolutamente riuscito e aggiunge un tassello importante al monumento della memoria, necessario a mantenere vivo il monito contro ogni fanatismo.
La frase:
"Se i tuoi occhi potessero parlare cosa direbbero?".
a cura di Simone Arseni
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