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Il caso Spotlight

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Riccardo Favaro03 settembre 2015
 

  • Foto dal film Il caso Spotlight
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  • Foto dal film Il caso Spotlight
Talvolta la verità (intesa giornalisticamente) è “coraggio di parlare” andando oltre il proprio passato, mettendo da parte se stessi e riconoscendo i propri limiti, la propria pigrizia, la propria ingenua inettitudine.

“Spotlight” o “Il caso Spotlight” è un film che riflette sul “parlare”, sul parlare “dopo”, sul parlare “per”, sul parlare “contro”, sul parlare “anche a costo di” e, forse necessariamente, sul “non” parlare, sul silenzio omertoso, sul silenzio che infanga la giustizia.

Il nucleo di inchiesta del “Boston Globe”, uno dei primi quotidiani della metropoli statunitense, inizia ad occuparsi di una vicenda (scaduta da alcuni mesi, già passata “in sordina” sulla cronaca locale) che riguarda decine di casi di abusi su minori per mano di un prete della zona. I membri della redazione di “Spotlight” (questo il nome del piccolo ma celebre nucleo) dà il via ad un'indagine complessa ed emotivamente gravosa per portare alla luce quello che si scoprirà essere un numero spropositato di vicende legate alle molestie da parte funzionari religiosi, attirando gli ostracismi dell'istituzione ecclesiastica e mettendo a dura prova la loro resistenza in quanto uomini (oltre che “giornalisti”).

Il cast (più ricco che mai, spiccano tra tutti Michael Keaton, che i panni del supereroe se li è tolti per davvero, un ottimo Mark Ruffalo, Rachel McAdams e Stanley Tucci) offre un lavoro interpretativo assolutamente in sintonia con quella che è la forma di massima dell'opera: un lavoro pulito, ben condotto, dalla struttura abbastanza solida e limpida, scevro di fazzoletti da naso e crisi mistiche, a tratti sorprendentemente carico di ironia ben calibrata. E' sorprendente, per tornare alla definizione iniziale, “parlare di” un film che “parla di” in modo così marcato. Sembra quasi di doversi piegare alle logiche della narrazione senza sporcarsi mani o lingua con valutazioni di carattere morale (e non moralistico, sia chiaro).

Perché “Spotlight” oltre a strappare più di un applauso fa incazzare, e questo può aiutare a smuovere la propria sensibilità rispetto alla tematica forte ma al tempo stesso può annebbiare l'opinione del lavoro in sé e per sé, svincolato dalla portata dirompente dell'inchiesta (inchiesta realmente realizzata nel 2001).

Allora è doveroso dare luce anche a qualche limite che la pellicola propone, come le scorciatoie che portano a cliché di genere o la non troppo approfondita analisi di tutto il panorama umano e professionale che viene presentato nelle oltre due ore di proiezione (nello specifico i rapporti umani, le controversie individuali e le relazioni all'interno della redazione soffrono un po' dell'attitudine fisiologicamente divoratrice della vicenda “Chiesa romana – crimini di pedofilia” e così vengono spesso abbozzati o troppo precocemente abbandonati). A tratti il sistema temporale della storia viene ristretto troppo creando disequilibrio percettivo nello spettatore abituato a canoniche divulgazioni di cronaca, a tratti viene dilatato a favore di dinamiche di cui si sente poco la necessità Ad ogni modo il disegno, nel suo insieme, risulta più che appropriato e il tiro giunge a bersaglio senza intoppi. La denuncia, intesa come fenomeno, ha ragione di esistere sul grande schermo solo se accompagnata da una ponderata scelta stilistica che tenga in considerazione coerenza di fondo e malleabilità per il grande pubblico, anche in presenza di atmosfere o fatti di grande violenza e difficili da digerire.

“Spotlight” tenta spesso di farsi documento (oltre che opera) e spesso (non sempre, questo è doveroso ripeterlo) riesce ad avere un onesto impatto comunicativo realmente interessato ad illustrare i fatti, sempre e comunque filtrati dalla mano di un regista (come McCarthy) che dà prova di conoscere i gusti del grande pubblico e di sapersi muovere anche su terreni minati.


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