Simon Konianski
Era il 2006 quando esplose il fenomeno "Little Miss Sunshine" diretto da Jonathan Dayton e Valerie Faris. Questa quasi misconosciuta pellicola, prodotta con un budget decisamente inferiore rispetto a quelli stratosferici di Hollywood, riuscì a conquistare il cuore del pubblico e della critica vincendo tantissimi premi in festival popolari, come ad esempio il "Sydney Film Festival". Da allora sono state prodotte diverse pellicole simili, dei road-movies leggeri ma con elementi drammatici, incentrati sulle vicende personali di una famiglia. Ora il regista trentacinquenne Micha Wald rischia di ripetere lo stesso successo grazie a "Simon Konianski". Dopo il cortometraggio "Alice et moi" del 2004, che ha vinto diversi riconoscimenti internazionali, ecco che il regista torna ai toni della commedia con un tocco diverso, originale, con una vena leggera, ma carica di contenuti. Il film è un divertente road-movie, con un umorismo che si avvicina a quello di Woody Allen, una satira della società moderna, in particolare di quella ebraica. Sono messi a nudo i difetti, le manie, le abitudini di una famiglia ebraica, tutti elementi che fanno ridere il pubblico, ma che a ben guardare sottolineano il divario generazionale fra un padre ed un figlio, fra amore ed odio, fra gli anziani legati alle tradizioni, alla religione ed un giovane che ha capito che il mondo è cambiato e rifiuta la tradizione. Il protagonista è Simon, interpretato da Jonathan Zaccaï, un laureato in Filosofia ormai trentenne che per vivere si offre come cavia per gli esperimenti su nuovi medicinali, non è sposato, ma è follemente innamorato di Corazon (Marta Domingo), ballerina spagnola da cui ha avuto un figlio. Per qualche motivo però la relazione sentimentale creata con questa donna non ebrea si è interrotta e ora Simon è costretto a tornare a vivere con il padre, il vecchio Ernest, interpretato da uno straordinario Popeck, che per nulla felice della cosa, tentando anche di aiutare il figlio, si rivolge al suo rabbino di fiducia per chiedere aiuto alle Scritture. Sembra una tipica famiglia, a parte alcune stranezze o manie dei personaggi, che regalano momenti allegri e divertenti. Ernest, infatti, non fa che parlare continuamente della sua esperienza nei campi di concentramento della Polonia, nel tentativo di debellare il fantasma dalla sua mente e al tempo stesso cercare di educare il figlio e il nipotino, oppure lo zio Maurice (Abraham Leber), scampato anche lui alla Shoah e convinto di essere pedinato dalle SS. Improvvisamente però tutto cambia, la morte di Ernest e il suo ultimo desiderio, quello di essere sepolto in Polonia accanto alla sua prima moglie, porta a galla sensazioni, ricordi e sentimenti perduti nell’animo di Simon. Desiderando rispettare le ultime volontà del padre, Simon si mette al volante e comincia un lungo viaggio verso la Polonia accompagnato dal figlio, dallo zio Maurice e dalla vorace zia Mala (Irène Herz). Mano a mano che passa il tempo, per Simon il viaggio diventa sempre più un viaggio educativo e di formazione, che lo spinge suo malgrado, attraverso una rocambolesca e surreale avventura, a scoprire le sue vere origini ed infine accettarle, a ritrovare se stesso e la storia della sua famiglia, a capire cosa significhi per lui essere ebreo. Quanto più lo scenario e gli eventi diventano surreali tanto più sembrano realistici e capaci di minare il già precario equilibrio mentale di Simon, messo alla prova dal dispiacere per la perdita della sua compagna Corazon. E’ un ripercorrere le tappe della propria storia, aprendo uno spaccato drammatico sui campi di sterminio, riuscendo a toccare lo spettatore senza però mostrare nulla delle atrocità di allora. Il vecchio campo di concentramento è intatto, vuoto sotto un cielo plumbeo e uggioso, tuttavia ancora aleggia attraverso il silenzio e la musica la disperazione, l’atmosfera carica di dolore, rotta però dall’umorismo leggero del regista. E’ l’umorismo la nota caratteristica del regista, non un umorismo sguaiato o pesante, ma capace di ridere bonariamente di se stessi e accettare ciò che è accaduto senza però oltraggiarlo o fargli perdere dignità. L’ultima cosa interessante da sottolineare è la scelta di utilizzare il nome del protagonista come titolo del film, cosa che ricorda i nostri romanzi di formazione dell’epoca dell’Unità d’Italia, anche allora i titoli erano nomi propri di persona, chissà se è un caso o se...
forse...
La frase:
- "Dovresti andare da uno psicologo"
- "Io dovrei andare da un ciarlatano che ha studiato 4 anni e costa più di uno specialista?".
Federica Di Bartolo
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© Versus Production - Laurent Thurin Nal
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