Shirin
Il regista iraniano Abbas Kiarostami, già vincitore della Palma d’oro a Cannes con "Il sapore della ciliegia" (1997), non si smentisce e torna a far parlare di sé presentando "Shirin" nella sezione "Fuori concorso" della 65esima edizione del Festival di Venezia. Questa originale e drammatica pellicola è caratterizzata dalla presenza del Premio Oscar Juliette Binoche, se non fosse per i suoi occhi intensi e vivi sarebbe quasi irriconoscibile, con questo stile esotico in cui appare. Questa nuova fatica di Kiarostami è un film corale in cui la celebre attrice francese è immersa insieme alle famose Niki Karimi e Mahnaz Afshar, in tutto centoquattordici note attrici iraniane di cinema e teatro, nella realtà di un’indefinita platea teatrale. In quel buio denso di sussurri, fruscii e movimenti, spettatrici di tutte le età assistono alla rappresentazione della tragica storia d’amore tratta da un poema persiano del dodicesimo secolo i cui protagonisti sono Khosrow, principe di Persia, Shirin, principessa d’Armeni e l’umile scultore Ferhad. Dopo le prime immagini in cui appare la storia riportata sui manoscritti, finemente illustrati, ecco che si apre il sipario, ma è un tendone immaginario vissuto attraverso gli occhi e le emozioni che emergono dai volti delle donne che assistono lo spettacolo. E’ una rielaborazione struggente e del tutto personale di un’antica storia e per rappresentarla il regista rinuncia ad ogni effetto teatrale o artificio alla ricerca della verità dei sentimenti e delle emozioni. Chi non ha mai provato la gioia dell’innamoramento, l’ansia della solitudine, l’affetto parentale e l’infelicità, il dolore per la perdita di una persona cara? Questa gamma variegata di sensazioni e umanità trapela chiaramente da questi diversi volti di donna. Un antico adagio sostiene che gli occhi siano lo specchio dell’anima ed è forse partendo da questa idea che il regista adopera la sua arte, per catturare la mimica dei volti, le loro emozioni, il loro Pathos, mentre assistono alla tragedia che si va svolgendo su un imprecisato palco teatrale. Le voci fuori campo dei protagonisti, prima fra tutte Shirin, narrano allo spettatore le vicende permettendo la comprensione e la fruizione e facilitando la lettura dei bellissimi volti. Vi è una galleria interessante di ritratti di donne dagli otto agli ottantanni, che farebbe innamorare un pittore e/o uno scultore.
Attraverso i gesti delle mani, della bocca e nello sguardo viene catturato dalla cinepresa quel momento che gli antichi greci, primo fra tutti Aristotele nella sua "Poetica", chiamavano "Catarsi" (κάθαρσις, purificazione). Queste donne dai volti eleganti partecipano e si compenetrano ai dolori e alle gioie della protagonista, prendendo coscienza di sé attraverso i ricordi e le proprie esperienze, ma allo stesso tempo se ne distaccano superando questo dolore. Da qui il teatro diventa mimesis ossia l’arte diventa e si compenetra nella realtà, ma in questo caso si nota un doppio passaggio, non solo il teatro infatti assume questa funzione, ma anche il cinema. Vi è forse un’omaggio a queste due arti, che possono essere definite madre e figlia, tanto amate dal regista? Quel che certo è che questo pubblico immaginario resta bloccato sulla sedia e al tempo stesso viaggia attraverso la mente e le emozioni in un’atmosfera quasi "crepuscolare", dove il suono si fonde con l’immagine, superando e colmando le lacune dovute all’assenza di scenografia. "Shirin" è come un dipinto che parla nel silenzio al cuore delle persone e a codificarlo vi è il suono, la voce narrante. Ecco che la pellicola diventa il nuovo campo di lavoro e pratica delle teorie di Kiarostami, che continua a giocare con questi due importanti elementi, rendendoli dominanti e protagonisti nelle sue opere.

La frase: "Senza di lei i fiori non riderebbero".

Federica Di Bartolo

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