Senza destino
Direttore della fotografia di oltre sessanta pellicole, tra cui le nostre "La leggenda del pianista sull'oceano" (1998) e "Malèna" (2000) di Giuseppe Tornatore, Lajos Koltai esordisce dietro la macchina da presa con Sorstalanság, che ora, in occasione della Giornata della Memoria, approda nelle sale cinematografiche italiane con il titolo Senza destino.
Girato in 11 settimane con una troupe di circa 500 persone, oltre ai 145 attori, tra cui il nuovo agente 007 Daniel Craig, e le 10000 comparse, Senza destino, tratto dal romanzo Fateless, scritto da Imre Kertész, vincitore del premio Nobel per la Letteratura nel 2002, vede il giovane e bravo Marcell Nagy (qualcuno lo ricorda nel televisivo "I ragazzi della via Pal" di Maurizio Zaccaro?) nei panni di Gyuri Köves, ragazzino ebreo di Budapest, brillante e sensibile, che, rinchiuso in un campo di concentramento, cerca in ogni modo, tra il dolore e le spietate azioni dei disumani carcerieri, di adattarsi perfino alle situazioni più tremende. E la voce narrante del protagonista ci trasporta, fin dai primi minuti di visione, all'interno di un'interessante vicenda di celluloide, caratterizzata da un'impeccabile ricostruzione scenografica, la cui bellissima fotografia dai colori desaturizzati, per mano di Gyula Pados (Kontroll), contribuisce in maniera fondamentale ad enfatizzare efficacemente la tristezza del racconto in questione, il quale, come c'era da aspettarsi, non manca di immagini disturbanti. Ma Koltai, nonostante si trovi a rielaborare il fin troppo sfruttato tema dell'Olocausto, riesce nell'impresa di non scadere nel patetico e facile sentimentalismo, supportato anche dalle splendide musiche del mai troppo elogiato Ennio Morricone, le quali, sebbene riecheggino vagamente le composizioni storiche dei film di Sergio Leone, conferiscono grande poesia; ed il pregio più grande del suo esordio registico è riconoscibile nella capacità di catturare l'attenzione dello spettatore dalla prima all'ultima inquadratura, elemento, questo, che raramente si riscontra in produzioni del genere, soprattutto quando la durata non rientra tra le più brevi (qui siamo intorno ai 130 minuti).
Quindi, dopo "Il pianista" (2002) di Roman Polanski, si torna ad affrontare seriamente un argomento dinanzi al quale Roberto Benigni ci aveva invitati a sorridere, e tutti coloro che si chiedono, al di là dell'interesse storico-didattico, per quale motivo vengano ancora oggi realizzati lungometraggi di questo tipo, potrebbero trovare l'occasione per essere spinti alla riflessione nei confronti di due elementi da sempre presenti nel quotidiano vivere, sia prima che dopo il Nazismo: la sofferenza dell'essere umano e la conseguente ricerca della felicità.

La frase: "Non ha senso prendersela con il destino".

Francesco Lomuscio

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