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Sanguepazzo
Un melò politico. Nel Ventennio, gli attori/amanti Osvaldo Valenti e Luisa Ferida diventano divi, scelgono Salò, lui fa il tenente nella Xma MAS poi partecipa, con lei, a festini a base di cocaina e champagne nel covo di tortura della famigerata banda del sadico Pietro Koch, terrore di Milano. Valenti è istrionica e contraddittoria figura autodistruttiva: erotomane, narco-dipendente e pokerista in mano a strozzini e fornitori di droga, consapevole della fine che l’aspetta come in una favola dove il cattivo è segnato. Ferida, per amore, lo segue.
Un progetto cullato da quasi trent’anni per l’impossibilità di trovare finanziamenti, e sulla cui sceneggiatura Marco Tullio Giordana è intervenuto più volte (prima con Enzo Ungari, poi con Leone Colonna), divenuto possibile dopo il successo de "la meglio gioventù", il "sanguepazzo" - sinonimo siculo di "testa calda" - è quello di una donna e di un Paese spaccati in due. Una divisione propria anche dell’opera, che eticamente critica, sì, le debolezze nazionali ("gli italiani si stanno precipitando in soccorso al vincitore"), ma oggettivamente è a rischio revisionismo. Sia nella pericolosa equiparazione tra i cadaveri esibiti (quelli del partigiano nelle acque veneziane, di Mussolini e Petacci a piazzale Loreto - dove in precedenza il Regime aveva fatto scempio dei resistenti, è bene saperlo - e dei due antieroi fucilati) che nel processo sommario ("dì quello che vogliono" dice Zingaretti/Valenti al testimone d’accusa, che emblematicamente è il suo amorale assistente personale, e "abbiamo fatto giustizia" sentenzia nel cameo finale il partigiano Lo Cascio, intendendo l’opposto). Artisticamente, Giordana sa unire la squallida visita interessata ai feriti all’ospedale con la liricità delle pizze del film girato da Valenti portate sempre con sé dalla coppia nei rocamboleschi spostamenti, che è un omaggio al cinema e al sogno schiacciati dalla realtà. Però il respiro è un pò corto, tra gli amplessi, e se Zingaretti giustamente và sopra le righe, Bellucci azzecca uno sguardo intenso nell’intero film. Non molto, per una protagonista passionale.
La frase: "non è che sia fascista, lui è Sandokan".
Federico Raponi
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