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Sàmara



Il racconto di un uomo in cerca di se stesso e della propria affermazione artistica, delle scelte e delle rinunce che è chiamato a fare lungo il suo cammino.
Luis, saltimbanco con le fattezze del Filippo Trojano visto nel collettivo "Tickets" (2005), il quale, deciso ad attraversare il bosco per raggiungere Sàmara e dopo aver incontrato durante il viaggio una affascinante e misteriosa poetessa persiana e un ambiguo mago, rispettivamente interpretati da Jale Tasir Nafas e Jean Francois Fardulli, fa conoscenza con la ballerina Rosita e il piccolo Morito, cui concedono anima e corpo Federica Pulvirenti e Denis Bejzaku.
Perché, al di là del contorno, sono loro i tre strambi personaggi a caccia della mitica città – luogo di ricerca, delle scoperte e della crisi – dove vorrebbero realizzarsi come artisti ed esseri umani, nel corso dei circa 112 minuti di visione che costituiscono il primo lungometraggio di finzione firmato da Massimo D’Orzi, autore dei documentari "Adisa o la storia dei mille anni" (2004) e "Ombre di luce" (2010).
Un viaggio nel tempo, un tempo interiore, raccontato attraverso una sorta di romanzo di formazione su schermo che, puntando in particolar modo sulla prova del cast internazionale fatto di italiani, russi, africani e iraniani, sfrutta la confusione tra immagini reali e strane visioni e apparizioni nella mente del protagonista.
D’altra parte, in mezzo all’abbondanza di simbologie e metafore, sono non poco avvertibili influenze dal mondo del teatro e della poesia, mentre risulta chiaro che a essere importante non è ciò che il film racconta, ma il modo in cui lo fa; soprattutto durante la sua lunga fetta ambientata nella foresta, con la luce filtrata tra le foglie degli alberi e il solo cinguettio a fare da sottofondo (se escludiamo il piano della efficace colonna sonora di Stefania Tallini), richiamando quasi alla memoria l’atmosfera – a suo modo magica – respirata nel secondo tempo di "Tropical malady" (2004) di Apichatpong Weerasethakul.
Ma soltanto le parole del regista – probabilmente influenzato anche dal cinema di Alejando Jodorowsky – possono chiarire i reali intenti di una tutt’altro che convenzionale operazione che potrebbe spingere lo spettatore a più interpretazioni: "Suggestioni, sensazioni che compaiono alla fine di una giornata di un regista, nelle sere di un pittore, nelle notti di uno scrittore, nei silenzi di un musicista. Il nostro film inscena questa ricerca, questa idea, questa conoscenza: si sviluppa senza una storia scritta precedentemente, ma segue il "corso naturale" delle cose; è il cinema che si riappropria delle sue origini, della sua essenza di "arte di strada", inventando e improvvisando emozioni fugaci che lasciano il segno".

La frase:
"Tu sei un uomo dell’Occidente e come tale hai imparato preso a mentire".

a cura di Francesco Lomuscio

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