Sacro GRA
Al centro del nuovo film di Gianfranco Rosi (premiato a Venezia nel 2008 con “Below Sea Level” nella sezione Orizzonti) c’è il GRA, il Grande Raccordo Anulare che circonda Roma e si estende per circa 68 km. Nell’arco dei sei mesi precedenti alle riprese, Rosi ha percorso più volte l’autostrada, direzionando il suo interesse verso l’ambiente, fisico e umano, del luogo.
Quello che ne è venuto fuori è un docu-film (sarebbe riduttivo limitarsi a definirlo ‘documentario’) che intreccia sette storie ambientate tra edifici, ville, casette sul fiume e campagne situate a ridosso del raccordo. C’è un palmologo che dichiara guerra al punteruolo rosso, una troupe impegnata nella realizzazione di un foto-romanzo, un pescatore con la sua compagna ucraina, l’autista di un’autoambulanza e molti altri ancora.
Sette frammenti di vita all’apparenza incompatibili che convivono ai piedi del raccordo. E Rosi, abolendo la voce fuori campo, documenta situazioni e relazioni che sembrano concepite dalla penna di uno sceneggiatore brillante e, invece, appartengono alla vita personale di ogni ‘personaggio’.
La sua è un’operazione che forza i confini del documentario, portandolo a sfiorare il territorio che delimiterebbe il cinema di finzione. Ma di finto, in realtà, in “Sacro Gra” non c’è nulla: volti, dialoghi, atmosfere appartengono tutti al luogo e quello che fa Rosi è, in sostanza, osservare.
Ovviamente, se il regista non fosse dotato di uno sguardo così particolare, ironico ed incisivo al tempo stesso, questo suo lavoro non avrebbe la purezza e la potenza che lo contraddistinguono. Ogni personaggio e ambiente sono osservati in modo da farne emergere il lato grottesco, portando sullo schermo un microcosmo affollato di contraddizioni, bellezza e assurdità.
“Sacro Gra” lascia un sapore in bilico tra il poetico e il malinconico, e quell’ambientazione fatta di cemento, acqua, macchine e neon sembra un non-luogo dove più individualità si “trovano” a dover convivere. Il GRA è un raccordo, uno strumento che collega zone ad altre zone, e in quanto tale non ha la dignità e l’autonomia del luogo. Rosi, invece, cerca di restituirgliela e così facendo il suo lavoro arriva a tratteggiare un’umanità che non è solo quella distribuita nei 68 km del raccordo ma va ad includere una città e, forse, un popolo intero.
E’ importante dirlo: non c’è nulla di pretenzioso nello sguardo di Rosi, anzi, il suo è un approccio che possiede un’onestà e una consapevolezza esemplari. Se il film riesce ad andare oltre la descrizione di un luogo è perché il suo autore sa sfruttare l’immagine, ne conosce il potenziale e il potere latente e costruisce un affresco che assume senso grazie al modo in cui ogni fotogramma si lega all’altro e, in un certo modo, ne continua il discorso.
Personalmente, una scoperta notevole (per molti altri una conferma): questo è il cinema libero e indipendente che va sostenuto e difeso a spada tratta.
La frase:
"La palma non ha come difendersi, l’hanno attaccata al cuore. Come l’uomo".
a cura di Stefano La Rosa
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