Rendition - Detenzione illegale
“Il diritto di punizione corporale che un uomo esercita su di un altro è una delle piaghe della società; è un mezzo sicuro per soffocare ogni germe di civiltà e di provocare la sua decomposizione” scrisse Dostoevskij, eppure a distanza di più di un secolo, spesso proprio in nome di quella “civiltà”, le torture continuano ad avvenire. Uno dei contesti è la “extraordinary rendition”, una pratica che consente il rapimento di cittadini stranieri residenti negli USA considerati una minaccia per la sicurezza nazionale, per essere detenuti e sottoposti a punizioni corporali in segrete prigioni oltreoceano. Il film di “Gavin Hood”, (Miglior film straniero agli Oscar 2006 con “Tsotsi”) parte da questo per realizzare un film corale su come il clima di pregiudizio e morte che si respira nei paesi, e nelle civiltà, più coinvolte nella drammatica situazione geopolitica mondiale, si rifletta direttamente nelle vite di normali cittadini.
Un tema importante che interessa, emoziona e suscita sempre riflessione. Sotto questo punto di vista infatti, a meno che non si abbiano già avute altre sollecitazioni in proposito, “Rendition” è un film interessante e grosso modo efficace. E a voler scavare più a fondo, però, che qualcosa comincia a scricchiolare. Dopotutto, noi, con “questo” presente conviviamo già da diverso tempo, ed è abbastanza legittimo che si ambisca alla visione di qualcosa di più: più radicale, più originale, più profondo, a prescindere dalla prospettiva scelta. “Rendition” invece vive nell’equilibrio, nel dire e non dire, nel fare e non fare. I fondamentalisti ci sono, ma in fondo è un pò “integralista” anche il comandante della polizia egiziana che vuole un matrimonio combinato per la figlia. Le torture avvengono, ma a ordinarle non è l’americano (che invece ha crisi di coscienza e diventa eroe), ma l’arabo, e lo schifo per una pratica del genere non è assoluto, ma anche e soprattutto legato al fatto che chi la subisce è in realtà innocente (ed in più ha una moglie incinta che lo aspetta assieme ad un altro figlio). Non c’è vera denuncia, ma semplice voglia di strizzare un occhio alla volta, a chiunque voglia sentirsi toccato, ma non troppo. Un “modo di fare” confermato dalla scelta dello sfasamento temporale delle storie, già visto ultimamente in “Babel”: in questa decisione non c’è una scelta tendente a mettere in risalto un contenuto (sia esso l’irrazionalità delle azioni umane in questo periodo, l’universalità del dolore o il chi sia davvero eroe ai nostri giorni), ma solo a sorprendere uno spettatore che potrà pensare: bello, non ci avevo pensato. Così fosse si tenga conto del fatto che gli autori avevano fatto di tutto, con precise scelte sia di montaggio che narrazione, affinché “non ci si potesse pensare”. Alle grida dell’islamico che parla con veemenza ai prossimi terroristi vengono incrociate le immagini delle disgustose punizioni corporali subite del sequestrato: normalmente questo significa contemporaneità degli eventi. E così succede anche in altri frangenti del racconto quando le due storie si mischiano. Non c’è poi nessuna scelta registica o di sceneggiatura che possa lasciare intuire, anche per un solo momento, che si corra in due momenti differenti, così come manca una ragionevole spiegazione su uno dei punti principali su cui si fonda il film: che connessione c’era tra il sequestrato e “quelle telefonate”?
All’acqua di rose anche alcuni passaggi come la facilità con cui un possibile terrorista se ne esca da un a prigione che si suppone speciale, il mancato immediato controllo delle persone che questo, sotto tortura, suggerisce come suoi complici (si aspetta davvero un giorno se può costare vite umane?). Gavin Hood con la sua regia non riesce oltretutto a creare bei momenti di suspanse o a coinvolgere più di tanto. Il suo cinema compassato, ma fluido, è ormai superato: il linguaggio visivo di oggi è quello dei reporter, più violento non tanto nelle immagini, quanto nel modo di proporle. Digitale, frenesia, rumore. Se si pensa al primo attacco alieno di Spielberg in “La guerra dei mondi”, al Cuaron di “I figli degli uomini”, all’ultimo “The bourne ultimatum” di Greengrass o alle prime sequenze di “The Kingdom”, la differenza emerge in maniera palese. Certo, non si può pretendere da chiunque realizzi un film sull’attualità, un grande film, ma la concorrenza sul tema comincia ad essere alta e non vale la pena accontentarsi del minimo come invece “Rendtition” fa.

La frase: "Dammi una sola ragione per cui sia valsa la pena utilizzare una tortura che ha creato dieci, cento, mille, nuovi nemici".

Andrea D’Addio

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