Quattro notti di uno straniero
Una realtà estranea. Ipirato da "Notti bianche" di Fëdor Dostoevskij, secondo e ultimo capitolo di un dittico sul contatto, ancora a Parigi con un uomo e una donna, "Quatre nuits d'un ètranger" del già documentarista Fabrizio Ferraro è in un bianco e nero quasi sempre molto scuro, con una sola scena in sovraesposizione, unità di tempo e luogo minimali e pochi eventi, tra ripetizioni e staticità (ma "niente è sospeso, tutto procede inesorabilmente"), lunghi piani sequenza, dettagli - alcuni bizzarri - di mani e volti, inspiegati gesti (l'orecchio poggiato su una parete di casa, il naso da clown al tavolo di un caffè). Commentato da musica classica, non parlato e silenzioso, tranne che per i distanti rumori metropolitani e gli echi delle frasi di uno dei personaggi, con i cartelli della suddivisione in 4 movimenti che riportano versi di Georg Trakl, in una città di strade e fiume, automobili, treni, imbarcazioni e passanti, il film colloca due protagonisti dai movimenti rigidi, uno fianco all'altro (a camminare, seduti su una panchina o quando guardano il traffico di barche) come un corpo unico nonostante si siano appena conosciuti.
Dell'uomo, la regìa segue un quotidiano solitario e d'attesa per lo più inoccupata, a tratti trascorrendo tutti i minuti del suo vissuto mentre aspetta sul marciapiede, sale le scale di un palazzo, si lava le mani o fa la doccia, ascolta la registrazione di una lezione di lingua, contempla la Senna. Tuttavia, se la coppia è straniera al mondo circostante, le suggestioni del profilo di testa femminile di fronte al biancore o, di notte, il battello illuminato che scorrendo delinea le sagome di entrambi, la fuga in avanti finale di lui pedinato dalla macchina da presa (che improvvisamente diventa palese osservatrice sulle tracce del proprio personaggio), non rendono l'opera meno cerebrale e straniera al pubblico.
La frase:
"Non so dirti da dove vengo".
a cura di Federico Raponi
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