La ricerca della felicità
Se lo sceneggiatore Fausto Brizzi ci ha recentemente riportati negli Anni Ottanta dello stivale tricolore attraverso il suo apprezzatissimo esordio registico "Notte prima degli esami" (2006), Gabriele Muccino, a tre anni dal bellissimo "Ricordati di me" (2003), affronta ora lo stesso decennio, nello scenario di San Francisco, con "La ricerca della felicità", sua prima prova in terra americana.
Però, tra cubi di Rubik, locandine di Toro scatenato e discorsi di Ronald Reagan alla tv, il suo lungometraggio racconta una ben diversa tipologia di esami, decisamente più seriosa e meno spensierata: quella relativa al periodo della vita in cui subentrano responsabilità che vanno ben oltre i banchi di scuola.
E lo fa ripercorrendo la vera storia di Chris Gardner - riportata dallo stesso, durante la produzione del film, all'interno di un libro non romanzato caratterizzato dal medesimo titolo -, interpretato da un eccellente Will Smith (Io, robot), brillante venditore in serie difficoltà economiche che, indietro con l'affitto per mancanza di lavoro, si ritrova sia abbandonato dalla moglie, con le fattezze di Thandie Newton (Mission: impossibile 2), che sfrattato dall'appartamento in cui viveva.
Ne consegue quindi un moderno apologo dolce-amaro che non avrebbe certo sfigurato nelle mani di Frank Capra o del nostro Vittorio De Sica (autori a cui lo stesso regista ha dichiarato di essersi ispirato), in cui l'autore de "L'ultimo bacio" (2001) trasferisce parte delle nevrosi tipiche dei personaggi delle sue fatiche, mostrandoci un Chris Gardner spesso arrabbiato, urlante e continuamente in corsa per le strade di San Francisco, sulle quali vaga tra i senza tetto, affiancato dal figlio di cinque anni Christopher, con il volto del piccolo esordiente Jaden Christopher Syre Smith (figlio di Will Smith), mentre, nella speranza di ottenere prima o poi una sicura retribuzione, accetta di svolgere gratuitamente il praticantato presso una prestigiosa società di consulenza di borsa.
Il tutto, commentato dalla bellissima colonna sonora di Andrea Guerra (Arrivederci amore, ciao) e condito con un indispensabile pizzico d'ironia, senza dimenticare un montaggio generosamente frammentato e la consueta abbondanza di dolly, pur non riuscendo nell'impresa di evitare qualche lentezza narrativa.
Ma ciò che non permette di gridare al capolavoro dopo la visione di questa godibile favola d'inizio millennio (o fine, se consideriamo il periodo di ambientazione), a tratti perfino commovente e traboccante poesia, è presto individuabile in un motivo ben preciso: il lodevole stile registico, tipicamente internazionale, del dotato Muccino, confrontato ai lavori di buona parte dei nostri giovani filmmaker "teatrodipendenti", che sembrano quasi essere affetti da una forma di fobia nei confronti del minimo movimento di macchina, risulta originale e coinvolgente, ma, trasferito negli States, dove un pò tutti girano in maniera simile alla sua, assume soltanto le fattezze di una pratica ordinaria.

La frase: "Quando le persone non sanno fare qualcosa, lo dicono a te che non la sai fare".

Francesco Lomuscio

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