Prince of Tears
Una favola raccontata da un bambino. Così si può definire il film "Prince of Tears" presentato in Concorso alla 66ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Ambientato in un periodo storico molto particolare per la Cina, il regista Yonfan tiene a sottolineare che molte possono essere le inesattezze cronologiche e gli anacronismi presenti, perché il film nasce da quelli che sono i ricordi e le sensazioni che si porta dietro dalla sua infanzia. Si definisce, infatti, non uno storico, ma un artista e come tale si sente libero di creare secondo ciò che detta la sua immaginazione.
E bisogna dire che riesce bene nel suo intento. Già a partire dalla storia, infatti, si percepisce la nota ingenua tipica di quell’età in cui si riesce a vedere il mondo colorato nonostante intorno stiano accadendo fatti tragici. Caratteristica accentuata non solo nel dirigere i piccoli interpreti e nello scrivere la sceneggiatura, ma anche nella fotografia, che quando parla di desideri di bambini assume toni pastello e movimenti allegri. Le risate dei bambini, il senso dell’amicizia e della famiglia, la voglia di gioia, riempiono lo schermo durante tutto il film, anche quando la situazione diventa drammatica.
Siamo negli anni ’50, a Taiwan, ultimo baluardo della Repubblica Popolare Cinese, dove il Generalissimo Chang Kai-Shek si era rifugiato con il governo nazionalista in attesa di tornare nella Cina continentale ormai comunista. Questo scatenò a Taiwan un odio e una paranoia anticomunista. Entrò in vigore la legge marziale, e cominciò quel periodo definito Terrore Bianco, che portò alla morte di migliaia di persone sospettate, spesso ingiustamente di spionaggio a favore del comunismo.
Questo periodo difficile per l’isola non viene però percepito dai bambini, che continuano a giocare, andare a scuola, e perfino al cinema. Gli viene insegnata l’arte, e il momento più felice della giornata è quando i loro padri tornano dalla base aerea. Questo è quello che rivive il regista attraverso gli occhi delle due bambine protagoniste, e che percepiamo anche noi.
Tutto gira intorno alle due sorelle Zhou e Li, e tutto ciò che vedono della storia che scorre davanti ai loro occhi è la grandezza degli adulti che le circondano e cui vogliono bene. Grandezza espressa sotto forma di grandi ideali come possono essere l’amore per la famiglia della madre Ping, o per la dedizione alla patria del padre Sun, o l’emancipazione femminile dell’aristocratica Signora Liu.
Persino lo zio Ding, che, secondo quanto si dice al villaggio, ha fatto arrestare il suo stesso fratello, Sun, per spionaggio, viene visto come qualcuno cui fare riferimento. Le due bambine, infatti, sono arrabbiate con lui, perché ha distrutto la loro famiglia, ma in qualche modo continuano a volergli bene e a fidarsi di lui.
Alla fine del film, quando finisce la favola e in qualche modo tutti vissero "felici e contenti", quasi a distaccarsi da quel suo onirico bisogno di tornare indietro nel tempo, il regista, crea una sorta di appendice, un epilogo in cui la realtà è quella che hanno vissuto gli adulti, quella cruda e crudele che un bambino difficilmente può capire.
La realtà dei bambini, infatti, è alterata dalle verità non dette, da quelle cose che i grandi tengono nascoste, per paura di turbare i più piccoli e a volte loro stessi, ed il regista sembra ci tenga ad evidenziarle quasi per rispetto ai personaggi che la sua memoria ha creato.
"Durante il Terrore Bianco oltre 3000 persone vennero condannate a morte e giustiziate dopo una procedura sommaria, oltre 8000 vennero imprigionate con sentenze che ammontavano complessivamente a più di 10000 anni di detenzione"

La frase: "le lacrime sono solo l’inizio della storia, poi tutto cambia".

Monica Cabras

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