Pride
Più puntuali di un film natalizio di Neri parenti, i film americani basati sull’espediente “lo sport come palestra di vita, possibilità di diventare adulti e lasciare da parte le problematiche del proprio territorio/famiglia/altro genere” si ripresentano ogni anno con la stessa identica struttura. Si tratta di uno di quei casi in cui dire “visto uno, visti tutti” non è solo una frase fatta. Cambiano logicamente alcune varianti la cui principale, normalmente, è lo sport (anche se per certi versi anche film come Sister act 2, nonostante non trattino di sport, hanno la stessa impostazione) Al nuoto ancora in pochi ci avevano pensato. Eppure, come per tante altre attività fisiche, anche qui la “storia vera” da cui attingere non mancava. E poi una gara nell’acqua è, visualmente, facilmente rappresentabile ed emozionante. Siamo negli anni ’70 in uno dei quartieri più malfamati di Philadelphia, e giovani ragazzi di colore, mezzi delinquenti, cominciano per varie ragioni a frequentare la piscina da poco aperta nella zona. Inizierà come un passatempo, sarà invece la loro occasione per diventare uomini e ambire a qualcosa di più per la loro vita rispetto a quando decisero di iniziare. Merito del coach, impersonato da quel Terrence Howard candidato all’Oscar nel 2006 per un film mai distribuito sul grande schermo da noi (Hustle&Flow).
L’esito è un film superficiale che al di là della facile morale sul razzismo e la forza di volontà, poco altro ha da offrire. Poca ironia (sprecata è la presenza nel cast di Bernie Mac) e poca drammatizzazione. I personaggi non sembrano mai reali, ma sempre macchiette che devono svolgere il compitino. Si salvano la fotografia e i costumi, nulla di eccezionale, ma che colgono lo spirito di semiribellione dell’epoca. Per il resto un film per giovani/giovanissimi che ben rientra nella sezione “Alice nella città” dove è stato presentato nell’ambito della seconda Festa del cinema di Roma.

La frase:
- "Mi spiace, ma non abbiamo una squadra femminile"
- "A guardarvi però mi pare che non ne avete neanche una maschile".

Andrea D’Addio

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