Mano leggera ma attenta alla complessità questa di Roberto Andò, anche perché il racconto, pur trattando di onorevoli, di partiti, di opposizioni, ecc., si dilata ben presto a un’analisi a strati, che tocca l’essere umano in generale. Perciò, mentre da un lato si punta al recupero di un nuovo linguaggio da parte di chi dovrebbe rappresentarci, dall’altra Andò interpreta, senza grandi descrizioni ma con azioni semplici e segnali quasi impercettibili – un gesto, un’occhiata, un sorriso – la condizione umana. Narrando in forma naturale e scorrevole, ma non senza tratti di poesia, il regista ci porta a un finale aperto e riprende lo spunto di partenza: il tema del doppio che è in ciascuno di noi. Infatti, dopo alcune sequenze della prima parte, il racconto prosegue con due percorsi paralleli nell’evolversi della psicologia e della vicenda esistenziale dei due protagonisti, gemelli fra loro. L’uno, Enrico, fugge da una realtà politica ormai inaridita, semplice routine che non sa rispondere ai bisogni reali, priva di passione per troppa abitudine al potere. Quindi, credendo di chiarire a se stesso cosa fare della sua esistenza, si rifugia in Francia, presso una vecchia fiamma che lavora nel cinema,sposata a un regista e con una figlioletta quasi adolescente. L’altro, Giovanni, filosofo di professione, vittima di una altalenante e tranquilla follia con ricovero in casa di cura fino a un anno prima, viene usato dal clan del fratello come sosia. In tale modo scopre che la sua disponibilità, il suo umorismo, l’aderenza spontanea e accogliente al prossimo, conquistano poco a poco il consenso e il plauso dei suoi e dei cittadini, i quali vedono finalmente la politica usare vesti e linguaggi nuovi. Intanto il fuggitivo va ritrovando un senso alle sue azioni e riscopre gli affetti, il tempo libero, la dolcezza di confrontarsi con chi ci ama. Alla fine dei due percorsi non sappiamo bene se il vero Enrico ritorna a fare il politico di professione, mostrandosi nei comportamenti simile al fratello o se è Giovanni quello che resta al suo posto. Mistero del doppio e del sorriso che aleggia in chiusura sulle labbra di Toni Servillo. Quest’ultimo, ormai mattatore in certi ruoli e con noti registi, tra cui Sorrentino e Garrone, è qui impegnato nel compito più complicato del doppio, visto che da solo interpreta i due protagonisti. Lo fa, come sempre, con enorme professionalità, ma cominciando a sentire il peso di un personaggio (quello dell’onorevole Enrico) che si ripete, pur affinandosi nel tempo. Più nuova e indovinata mi sembra invece la performance che riguarda il filosofo un po’ folle e il suo carattere, fondamentalmente saggio, proprio di chi non ha mai pensato che il lavoro esaurisca la vita di un uomo. Vorrei citare poi, oltre Valerio Mastandrea, perfetto nel ruolo dell’assistente-mamma, il cammeo di Gianrico Tedeschi, che mi ha ricordato due grandi vecchi (Foa e Bobbio) che della politica hanno fatto scuola di vita…
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