Attraverso tre decenni, dal 1970 ai giorni nostri, Paolo Virzì intraprende il suo viaggio nella memoria con la doppia finalità di riconciliarsi e ricordare due punti fermi per tutti noi: il luogo d’origine e la madre. Archetipi che spesso sembrano confondersi o sdoppiarsi ma con i quali si devono comunque fare i conti. A un certo punto della vita ci si trova, quasi inevitabilmente, ad affrontare questa analisi dove tutta la verità, nel bene e male, deve essere detta per liberarsi dal passato come peso o dolore e riuscire a ritrovarne anche la parte gioiosa. La maggior parte delle persone lo fa nel silenzio del suo cuore se non può più condividere con altri la propria storia popolata di luci, ombre, sofferenze, luoghi, persone. Al centro del viaggio di Virzì in se stesso è vincente la memoria di una madre giovane, bella, confusa e vitale che semina amore ma nche rancori e complessi nei due amati figli, specie nel maschio. Fino all’ultimo toccherà a lei rimescolare le carte, sposando con regolare cerimonia, poco prima della morte, il vicino di casa (l’unico che l’ha sempre amata). Inoltre con la sua levità e capacità di reazione, riporterà il figlio musone, rancoroso, senza veri affetti, a gustare finalmente la vita. Lo stesso accade per la figliola incatenata a un matrimonio senza amore, dal quale si libera nel momento in cui piange dolcemente la morte della madre Anna. Interprete di tale ruolo, nella prima parte del film, è Micaela Ramazzotti, troppo caricata nel tentativo di assomigliare alla Sandrelli giovane; nella seconda, Stefania Sandrelli, appunto, che recita se stessa. Lo scenario della città natale, Livorno, muta di forme e colori: caldi e luminosi quelli degli anni ’70, grigia e notturna l’atmosfera e la fotografia degli ’80, naturale quella di oggi. D’obbligo la colonna sonora che ci riporta a canzoni sottofondo delle estati nostrane e della vita popolare nell’Italia di allora. Alcuni piani sequenza sono da maestri della commedia all’italiana, ma purtroppo nella parte finale, come da italico copione, i toni melodrammatici, tenuti a bada fino a un certo punto, tracimano, mentre la scena si fa eccessivamente affollata di personaggi e di sentimenti. La recitazione intensa, ma non sempre calibrata al punto giusto, vede un Valerio Mastandrea surclassare gli altri per capacità di comunicazione e sintesi espressiva. Bellissime a riguardo le scene del ritorno alla città da cui era fuggito ferito e senza pace, con quella difficoltà di collocarsi in mezzo a situazioni e persone che, sulle prime, accrescono la sua inadeguatezza. Alla fine la vita che si mischia alla morte nella vecchia casa di nuovo piena di voci, mostra una famiglia “particolare” mas conciliata, senza rancori e invidie, dove ognuno sembra aver trovato il suo posto. Inutile citare Scola, Monicelli, Avati; questo è il film più personale di Virzì e quindi lasciamolo solo in questa sua “autobiografia truccata” (la definizione è la sua).
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