Diffido in genere dei remake o di opere che hanno come antecedente un capolavoro del quale riprendono spirito e forma. In questo caso si tratta ovviamente del Fellini dei Vitelloni e di Amarcord. E il confronto non giova all’ultima creazione di Pupi Avati, che salvo alcuni casi (Regalo di Natale, I cavalieri che fecero l’impresa, Il papà di Giovanna) è ormai definibile come il cantore della nostalgia targata Romagna anni ’50. Perché anche nei film più difformi da questo vagheggiamento del passato, l’essere bolognese e aver trascorso in quel luogo la giovinezza è diventata per Avati quasi una categoria dello spirito. Per ciò che riguarda gli attori, salvo qualche nuovo arrivato, gli altri sono diventati quasi la sua famiglia, i suoi compagni di bar (in questo caso il Margherita), ma non saprei dire se questa situazione di conoscenza profonda sia un male o un bene. Ad esempio, nel caso di Abatantuono mi pare che provochi un invito alla pigrizia creativa, per cui il simpaticissimo Diego sembra ripetersi all’infinito nei modi e nella sostanza del personaggio. Neanche nuova nell’opera del regista è quella punta di malignità paesana, di torbidezza nei rapporti di amicizia che non fanno dimenticare ad Avati, pure quando è intento a ritrarre la bonomia del passato, che nel quotidiano e abituale giocano anche forze negative, momenti oscuri in cui il familiare diventa quasi noir. A tal proposito vedi in questo film le sequenze sul ballo a casa dell’adolescente, alter ego di Pupi, mentre nella stanza accanto l’amato nonno giace morto. Per inseguire troppi personaggi messi in scena, Avati finisce poi col lasciarne molti a livello di nome e cognome, senza svilupparne il carattere o il ruolo giocato nel gruppo. Si tratta di comparse di un teatrino a volte stucchevole o addirittura sciocco quando non riscattato dallo humour o dall’ironia. Su tutto quindi aleggia un senso di già visto e di noiosamente provinciale. Come ho già accennato, la scena è posta a Bologna, più o meno negli anni ’50. Al bar Margherita (Bologna anni ’50)si riuniscono i frequentatori abituali, un gruppo eterogeneo con alcuni leader, come Al (Diego Abatantuono), introdotto nei nights, ottimo giocatore di biliardo, un po’ il padre di tutti. Lui è il modello da imitare per il diciottenne Taddeo (Pier Paolo Zizzi), che inaspettatamente finisce col diventare il suo autista. C’è poi Neri Marcorè (alias Bepi) ancora una volta nei panni dell’inadeguato-imbranato che, ovviamente, ama la donna sbagliata; c’è il ripescaggio di Gianni Cavina (il nonno di Taddeo), che insegue ancora conquiste femminili; c’è il bravo Fabio De Luigi (alias Gian) che aspira a partecipare a Sanremo, ma riesce solo ad eccitare lo spiritello cattivo del gruppo. Tra le donne, protagoniste secondarie rispetto agli avventori del bar o “eroi sciocchi”, come li definisce lo stesso regista, citerei solo una splendente Luisa Ranieri nel ruolo di Minni, maestra di pianoforte e ultima spiaggia del desiderio del nonno di Taddeo.
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