Attenzione all’uomo nero…. E non solo
Nel 1978 a Colorado Springs, nel commissariato di polizia locale, è presente un solo agente di colore: Ron Stallworth. Ron viene spostato quasi immediatamente dall’archivio al lavoro sotto copertura e da una sua intuizione nasce un’indagine che farà infiltrare il suo collega Philippe all’interno del Ku Klux Klan. Ron è la voce telefonica che contatta gli associati del Klan, mentre Philippe colui che fisicamente si espone perché di pelle bianca. L’indagine, fra rischi e pericoli, procede fino a quando David Duke, gran maestro del Klan e in ascesa nel mondo della politica, non arriva in città per il rito d’iniziazione dei nuovi iscritti.
L’ultima pellicola di Spike Lee saccheggia a piene mani dalla biografia dell’ex poliziotto Ron Stalleworth, e dalla sua avventura come infiltrato telefonico fra le pieghe del movimento suprematista della razza bianca ovvero il Klan, questo prima dello scioglimento ufficiale a causa della bancarotta che lo colpì nei primi anni ‘80. Il lavoro politico che è alle spalle di questo inno al cinema e alla cultura di colore, ma che prende il via dallo stesso odio che può colpire anche altre minoranze, è un opera certosina fondata sullo humour creatosi da situazioni che di comico non avrebbero nulla, come le continue conversazioni telefoniche che coinvolgono Ron e il gran maestro del Klan: David Duke, certo di riuscire a capire se la persona con cui parla è di pura razza ariana solamente grazie all’inflessione della voce dell’interlocutore. Dall’altro lato Lee riesce a mostrarci come non vi siano poi grandi differenze fra persone di origine etnica diversa, basta infatti analizzare i legami di cameratismo che progressivamente Ron genera con parte dei suoi colleghi e con il movimento studentesco di colore, o l’odio che scorre indifferentemente alle riunioni del KKK o agli incontri dei leader politici afroamericani.
John David Washington aggiunge, a una pellicola dal ritmo incalzante nonostante le oltre due ore di durata, un agente Stallworth senza particolari apici interpretativi ed è forse questa l’unica sbavatura in un film che invece riesce a trovare in Adam Driver un protagonista vincente: un infiltrato credibile e un uomo di origine ebraica che improvvisamente si trova catapultato in un mondo che lo odia esattamente come il suo collega Ron. Un’altra piacevole scoperta è il David Duke impersonato da Topher Grace, ovvero un politicamente moderato dietro al quale si nasconde un iscritto al partito nazista americano e che fra le mura solide e bianche di una villa di periferia e di fronte ad un pubblico debitamente selezionato, non nega mai la legittimità delle sue convinzioni suprematiste. Una pellicola che narra una storia tanto assurda quanto vera, un calcio ben assestato, senza nemmeno troppi giri di parole, all’America di oggi: il film si conclude difatti con le riprese degli scontri di Charlottesville e con i commenti a caldo sia del presidente Trump ma anche del redivivo Duke.
Nel 1978 a Colorado Springs, nel commissariato di polizia locale, è presente un solo agente di colore: Ron Stallworth. Ron viene spostato quasi immediatamente dall’archivio al lavoro sotto copertura e da una sua intuizione nasce un’indagine che farà infiltrare il suo collega Philippe all’interno del Ku Klux Klan. Ron è la voce telefonica che contatta gli associati del Klan, mentre Philippe colui che fisicamente si espone perché di pelle bianca. L’indagine, fra rischi e pericoli, procede fino a quando David Duke, gran maestro del Klan e in ascesa nel mondo della politica, non arriva in città per il rito d’iniziazione dei nuovi iscritti.
L’ultima pellicola di Spike Lee saccheggia a piene mani dalla biografia dell’ex poliziotto Ron Stalleworth, e dalla sua avventura come infiltrato telefonico fra le pieghe del movimento suprematista della razza bianca ovvero il Klan, questo prima dello scioglimento ufficiale a causa della bancarotta che lo colpì nei primi anni ‘80. Il lavoro politico che è alle spalle di questo inno al cinema e alla cultura di colore, ma che prende il via dallo stesso odio che può colpire anche altre minoranze, è un opera certosina fondata sullo humour creatosi da situazioni che di comico non avrebbero nulla, come le continue conversazioni telefoniche che coinvolgono Ron e il gran maestro del Klan: David Duke, certo di riuscire a capire se la persona con cui parla è di pura razza ariana solamente grazie all’inflessione della voce dell’interlocutore. Dall’altro lato Lee riesce a mostrarci come non vi siano poi grandi differenze fra persone di origine etnica diversa, basta infatti analizzare i legami di cameratismo che progressivamente Ron genera con parte dei suoi colleghi e con il movimento studentesco di colore, o l’odio che scorre indifferentemente alle riunioni del KKK o agli incontri dei leader politici afroamericani.
John David Washington aggiunge, a una pellicola dal ritmo incalzante nonostante le oltre due ore di durata, un agente Stallworth senza particolari apici interpretativi ed è forse questa l’unica sbavatura in un film che invece riesce a trovare in Adam Driver un protagonista vincente: un infiltrato credibile e un uomo di origine ebraica che improvvisamente si trova catapultato in un mondo che lo odia esattamente come il suo collega Ron. Un’altra piacevole scoperta è il David Duke impersonato da Topher Grace, ovvero un politicamente moderato dietro al quale si nasconde un iscritto al partito nazista americano e che fra le mura solide e bianche di una villa di periferia e di fronte ad un pubblico debitamente selezionato, non nega mai la legittimità delle sue convinzioni suprematiste.
Una pellicola che narra una storia tanto assurda quanto vera, un calcio ben assestato, senza nemmeno troppi giri di parole, all’America di oggi: il film si conclude difatti con le riprese degli scontri di Charlottesville e con i commenti a caldo sia del presidente Trump ma anche del redivivo David Duke.