Oasis
Probabilmente uno dei maggiori candidati alla vittoria finale di questa edizione della Mostra veneziana, "Oasis", del regista coreano Lee Chang Dong, ci trascina in una storia colma di disperazione: Jong Du (Sol Kyung-Gu), un ragazzo leggermente ritardato, è appena uscito di prigione dopo aver scontato, al posto del fratello maggiore, una condanna per un omicidio, colposo.
Totalmente spaesato, con indosso abiti estivi in una giornata invernale (con quelli era entrato e con quelli deve uscire), senza nessuno ad aspettarlo e privo anche del nuovo indirizzo della sua famiglia, ci mette un attimo ad essere arrestato nuovamente.
Liberato grazie all'intervento del fratello minore, l'unico che forse cerca di capirlo, si rende immediatamete conto, anche con le sue limitate capacità cognitive, di non essere il ben accetto in casa (tant'è vero che finisce a dormire in officina). Tra l'altro, nonostante la sua innocenza, si sente in colpa per l'uomo rimasto ucciso e così viene a conoscenza della figlia, Gong Ju (Moon So-Ri), a sua volta affetta da paralisi.
Tra i due, dopo un'inizio a dir poco burrascoso, si instaura un legame di quelli forti, tra reietti, nato sulla forza del disprezzo che li circonda. La continua frequentazione sfocia in un sentimento d'amore che finalemente viene coronato in una notte indimenticabile.
Ed è proprio a questo punto che non dobbiamo dimenticarci quanto sia lontana Hollywood od anche l'italico ottimismo: in casa piombano a sorpresa i tutori di Gong Ju, che interpretano i fatti nell'unico modo per loro concepibile: Jong Du sta violentando una povera ragazza disabile.
Le porte della prigione si spalancano di nuovo di fronte a Jong Du, l'effimera felicità scompare inghiottita dalla balbuzie nervosa di Gong Ju che non è in grado di dire una parola per salvare il suo amato e l'ennesimo dramma orientale si compie.

Dopo la tortura mentale e la mortificazione morale di Kitano ("Dolls"), Venezia ci propina un'altra storia senza speranza. Senza voler nulla togliere ad un soggetto valido e dai temi forti, la penalizzazione arriva, come di consueto, da ritmi narrativi lontani anni luce dalla sensibilità europea: già dai titoli di testa, all'insegna della prolungata immobilità totale, si percepisce l'intenzione del regista di utilizzare il tempo come ulteriore strumento narrativo. La visione asiatica del cinema da "mostra" bandisce l'intrattenimento a favore della sofferenza interiore e dell'initmismo. La disperata spirale per cui il nervosismo che blocca la parola di Gong Ju è lo stesso che gli nasce dal non essere in grado di parlare, è emblematica di questo.
Comunque troviamo spunti interessanti nei personaggi e nei loro comportamenti univerasali, come la preghiera quale ricetta di tutti i mali o il "pranzo di rappresentanza".
Un discorso a parte merita l'interpretazione dell'attrice Moon So-Ri talmente coinvolgente da farmi inizialmente credere che si trattasse effettivamente di una disabile.

Indicazioni:
Per tutti coloro che fanno dell'impegno e del cinema d'autore la loro filosofia di vita.

Valerio Salvi

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