Il mio nome è Khan
Presentato alla 60° edizione del Festival Internazionale di Cinema di Berlino, nella sezione fuori concorso, ha colpito la critica per la sua schiettezza e semplicità nel trattare temi importanti come il rapporto fra le religioni e i popoli, il problema dell’autismo e soprattutto descrivendo il clima di terrore e odio provocato dalla tragedia dell’11 settembre 2001. Diretto dal giovane regista di Bollywood, Karan Johar, è interpretato da una delle coppie più famose del cinema indiano Shah Rukh Khan e Kajol, ha sbancato i botteghini in India e conquistato il pubblico statunitense. Sembra che l’opera sia ispirata ad una storia vera risalente ad un fatto accaduto all’aeroporto di Newark, quando un uomo americano di origine musulmana ed affetto da autismo fu arrestato senza motivazioni precise dalle autorità di frontiera dopo l’episodio delle Torri Gemelle. L’incidente suscitò l’indignazione dell’India tanto che l’ambasciatore americano a New Delhi dovette pubblicare un comunicato stampa per spiegare l’accaduto. Al di là del suo carattere più o meno biografico, "My name is Khan" è un film ben costruito caratterizzato da uno stile frizzante che alterna atmosfere melò a quelle "epiche" ed on the road. C’è una profonda attenzione a livello estetico, tanto che a volte la pellicola appare quasi patinata ed inoltre è arricchita da una colonna sonora sempre più incalzante, che a volte sembra cercare di imporsi sulla recitazione fatta di sguardi e di silenzi. Il film, sebbene sia caratterizzato da diversi flash back, è diviso in due parti, l’inizio è dedicato a presentare il protagonista, la sua infanzia, il suo particolare rapporto con il mondo, essendo affetto da un disturbo autistico chiamato sindrome di Asperger, con il fratello minore e la sua amorevole madre e raccontare l’incontro con la donna della sua vita di religione induista. La seconda parte è caratterizzata dalla tragedia, dal viaggio nel dolore per la perdita del figlio vittima di bullismo e del razzismo, facendo così acquisire al film stilemi e caratteri tipici delle opere "on the road", un cammino che si conclude con la riscoperta dei sentimenti e dell’amore. Il regista Karan Johar insieme alla sceneggiatrice Shibani Bathija costruisce un film inedito per lo stile di Bollywood, affrontando con tocchi leggeri e drammatici il tema politico e sociale. La frase "Il mio nome è Khan e non sono un terrorista" diventa così simbolo e voce di tutte quelle persone di origine straniera che hanno visto la loro vita sconvolta dalla tragedia delle Torri Gemelle, catapultati improvvisamente in una realtà diversa, "vittime" dell’odio e della vendetta nei confronti di chi è diverso per religione e cultura, senza riuscire a farsi ascoltare e comprendere. Senza annoiare, nonostante la sua lunghezza, "My name is Khan" si avvicina ad un manifesto politico, ma evita i toni predicatori nel tentativo di toccare il cuore del pubblico, mostrando un uomo "diverso", che affronta le tragedie della vita restando fedele a se stesso. L’opera potrebbe addirittura essere riassunta nel semplice ed universale insegnamento che la madre cerca di impartire a questo suo figlio così speciale: "Al mondo esistono solo due tipi di persone: quelli buoni che fanno buone azioni e quelli cattivi che commettono cattive azioni. Questa è l’unica differenza". Lascia però un che di amaro in bocca, l’elemento forse troppo americanizzato della storia che in qualche modo indebolisce la forza del film, mostrando un’America allo sbando, che dopo il 2001 sembra non riuscire ad organizzarsi e si comporta come un animale ferito.

La frase: "Una vita passata da diverso riassunta in due parole: sindrome di Asperger".

Federica Di Bartolo

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