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Miral
Frutto del felice connubio tra un pittore-regista di origini ebraiche e di una scrittrice palestinese, "Miral", è un piccolo capolavoro, tanto ovvio nella sua espressività da poter essere considerato stupefacente.
Le tematiche che affronta, sono quelle di cui sentiamo parlare tutti i giorni da diverse generazioni, ma forse, proprio per l’ovvietà di queste, si può dire che è un film di cui si sentiva il bisogno.
Nel 1948, in una Gerusalemme sotto il controllo militare israeliano, Hindi Husseini, (Hiam Abass "L’Ospite inatteso", "Il Giardino dei Limoni"), trova 55 bambini rimasti orfani dopo che i loro villaggi sono stati messi a ferro e fuoco. Decide di occuparsene e fonda una scuola, convinta che sarà l’istruzione a salvare il futuro di questi bimbi e del suo paese. Dopo trent’anni, alla scuola arriva Miral, e sarà la sua storia a raccontare l’incertezza, la confusione e la speranza di un popolo profondamente lacerato dall’odio.
Fedele alla sua predisposizione pittorica, Julian Schnabel, ("Lo scafandro e la farfalla", "Basquiat"), dirige il film come se allestisse una personale in una galleria d’arte, dove il filo conduttore è la ricerca della propria identità, analizzando un periodo storico terribilmente difficile, visto con gli occhi di quattro donne diverse, ma tutte profondamente legate tra loro. Le vicende delle protagoniste, si alternano a filmati di repertorio che incorniciano e definiscono la drammaticità della storia, sottolineando la veridicità dei fatti raccontati.
Il plot narrativo porta come elemento principale la storia di Miral, interpretata da Freida Pinto, ("The Millionaire"), vista attraverso l’esistenza di donne nate prima di lei, ma che ne hanno determinato il suo modo d’essere, quasi a rimarcare che ogni scelta, ogni azione, ogni pensiero si ripercuote sugli altri, in modo inesorabile.
E Così attraverso Hindi, la sua istitutrice, Fatima, la sorella di suo padre e Nadia, sua madre, il cammino di Miral prende una direzione ben precisa, ma sarà lei a sua volta a compiere delle scelte che potrebbero cambiare il mondo che la circonda.
La telecamera gioca con la messa a fuoco, si muove e ondeggia, come se cercasse un punto fermo a cui affidarsi, esattamente come le protagoniste fanno per tutto il film, in cerca di un modo d’essere che non tradisca le proprie origini, ma che si sposi armonicamente con la diversità che esplode tutta intorno a loro.
Ovviamente la presa di posizione del regista è ben definita, e si sposa con l’ideologia e le esperienze dell’autrice, che in parte racconta la sua vita, in questa storia, e le assurde e inutili crudeltà di cui è stata testimone. Ed è forse proprio questa passione personale a rendere il film così commovente, coadiuvato da un’interpretazione dei protagonisti, asciutta, pulita, mai sopra le righe, come se stessero vivendo realmente quelle emozioni proprio nel momento in cui noi le vediamo.
La frase: "Stiamo costruendo la Pace. Non la stiamo sognando".
Monica Cabras
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