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Manderlay
Con Dogville Lars Von Trier ci aveva stupito, forse anche affascinato, con l'idea di un "Cinema Superiore", che oltrepassasse la barriera del visibile per entrare in quella dell'immaginabile. Una storia di emarginazione e ostilità ambientata in un luogo ameno e oscuro, come il palco di un teatro, appunto, senza possibilità di vera risoluzione: metafora di un Cinema alla deriva, pura incarnazione del Dogma '95. Kidman poi era perfetta, diciamolo pure senza mezzi termini, e quel ruolo gli calzava a pennello.
In Manderlay come in Dogville, a cui questo titolo si riallaccia, le scene sono girate in un interno di teatro: le scenografie sono disegnate sul palco mentre gli attori fingono di aprire porte, mangiare, o arare i campi che, nel loro niente scuro e innaturale, diventano tangibili attraverso il suono fuori campo. La protagonista è ancora una volta una ragazza, ed è ancora la figlia di un gangster mafioso, che si ritrova a dover prendere le redini di una situazione al limite. Se Grace riuscirà o meno a portare la democrazia in una piantagione di patate è davvero un enigma a cui nessuno spettatore può rinunciare… Scherziamo, vero? Purtroppo no. Manderlay risulta più grottesco del suo film precedente, meno convincente, e tanto, ma tanto, arrogante. Come in una vecchia serie animata giapponese in cui "lo stesso colpo non si può usare due volte", anche Lars Von Trier non può pretendere di usare la stessa strategia due volte senza aspettarsi la noia.
Altro che poesia cinematografica o pretese nobilitanti di un "Cinema privo di anima": in Manderlay si assiste a una totale sconfitta sensoriale. E forse è il caso che Von Trier si ricordi che questo al Cinema non avviene. Disarmante.
Manderlay è quindi un "non-film", un ibrido artistico senza identità: quella cinematografica persa nell'oscurità assenteista delle scenografie; quella teatrale annullata dall'utilizzo stesso della telecamera. Una ripresa "a mano" quasi sempre instabile, troppo spesso sfocata. Esperimento improbabile che vuole parlare di razzismo e integrazione ponendo nuovi punti di vista. Ma perché, ci chiediamo, quanti ce ne sono? Nemmeno a questo Von Trier risponde concretamente, riciclando nei titoli di coda vecchie foto di repertorio di kukluxclan, atti di violenza, foto di guerre, apartheid… Complimenti!
Qualcuno potrebbe obiettare che questa non è una vera recensione, e a ragione me ne scuso. Del resto Manderlay non è un film.
La frase: "…Manderlay è un obbligo morale, perché vi abbiamo creato noi…"
Diego Altobelli
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