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L'ultimo lupo











Anni 60.
Durante la Rivoluzione Culturale in Cina molti intellettuali si spostano da Pechino fino in Mongolia per contribuire all'alfabetizzazione delle tribù locali e apprendere, di rimando, le arti della caccia e della pastorizia.
Il giovane studente Chen Zhen scopre ben presto come quel popolo, considerato da molti selvaggio, si tramandi da generazioni una forma di saggezza ancestrale e un rispetto per la natura del tutto sconosciute nelle grandi città.
In particolare i lupi selvatici, feroci predatori che contendono agli uomini il predominio di quei territori inospitali, vengono temuti e adorati quasi come fossero delle divinità e, osservandoli, Chen si appassiona talmente a questi animali da decidere, contro il volere dell'intera comunità, di allevarne uno.
Quando un Ufficiale dell'esercito ordina lo sterminio di tutti i lupi della zona, visti come un freno all'avanzata della civiltà maoista, il giovane realizza come, salvando il "suo" lupetto dalla morte, egli possa garantire una possibilità di sopravvivenza all'intera specie.
Pubblicato per la prima volta in patria nel 2004, Il totem del lupo di Jiang Rong è diventato, nel corso degli anni, uno dei casi letterari più emblematici nella storia della moderna editoria cinese, anche in virtù della sua diffusione pirata. L'autore è, infatti, un dissidente che ha realmente vissuto la stagione della Rivoluzione Culturale nella Mongolia interna e che, sotto pseudonimo, racconta dell'eterna dialettica tra stanzialità e nomadismo attraverso la metafora del lupo come archetipo di fierezza e indomabilità.
I tentativi di Chen di addomesticare il cucciolo di lupo falliscono miseramente più o meno allo stesso modo in cui il Governo si dimostra inefficace nel piegare la fierezza morale delle tribù mongole.
Nell'approcciarsi al testo per tradurlo in immagini, Jean-Jacques Annaud porta in dote la sua innata passione per i grandi spazi e per la fisicità animale già ampiamente mostrata in opere come L'Orso e Due fratelli. Aiutato anche da un uso del 3D assai poco invasivo, per lo più funzionale a restituire allo spettatore la profondità dei paesaggi e il senso di minacciosa incombenza dei branchi di lupi nella notte, L'ultimo lupo rappresenta una sorta di ultimo bastione del cinema classico, sia per l'ampio respiro che il regista è abilissimo a infondere in tutto ciò che inquadra che per la struttura stessa di una storia che, al netto degli ovvi simbolismi a cui si accennava poc'anzi, è quanto di più lineare si riesca a immaginare.
Annaud dissemina dunque l'arida steppa mongola dei resti di un cinema che ormai non esiste più per raccontare la fine di un'epoca e, qualora fossimo chiamati a valutare l'opera solo da un punto di vista tecnico, la scommessa dell'autore francese potrebbe anche dirsi vinta.
Se sono, infatti, numerose le scene che tolgono letteralmente il fiato (una su tutte quella dell'amara scoperta, da parte degli uomini della tribù, dei cadaveri congelati di buona parte dei loro cavalli, spinti durante la notte in un lago ghiacciato da un branco di lupi) laddove il film mostra più carenze è invece in una sceneggiatura priva di grossi picchi e infarcita di dialoghi che, in più di un'occasione, rasentano la banalità.
La stessa dicotomia tra nomadi e coloni comunisti viene risolta con la semplice contrapposizione tra un autoritario ufficiale dell'esercito che passa il tempo a sbraitare ordini e un anziano pastore mongolo - sorta di mix tra il Maestro Miyagi di Karate Kid e il Pai Mei di Kill Bill - sia fisicamente che per la fastidiosa abitudine a dispensare perle di saggezza ogni volta che qualcuno gli si rivolge.
L'unidimensionalità insistita di tutti i personaggi, per alcuni versi necessaria a un racconto di formazione così fieramente classico, presto stanca e spinge lo spettatore a concentrarsi quasi esclusivamente sui paesaggi e, soprattutto, sui lupi, veri protagonisti dell'opera oltre che unici elementi filmici dotati di reale profondità.
L'ultimo lupo risulta così un prodotto fin troppo edulcorato nel suo ambire a un cinema popolare, nostalgica elegia di un idillio pastorale che risente però della mancanza di una riflessione più seria sul rapporto tra uomo e natura incontaminata.
Ma Jean-Jacques Annaud evidentemente non è Herzog e tocca quindi accontentarsi della magnifica cornice cercando di prescindere dal quadro e provando a immaginare quanto sarebbe stato più bello questo film se, invece che un'opera di pura fiction, fosse stato pensato come documentario.
Non stupisce affatto, in quest'ottica, apprendere di come il film sia stato commissionato ad Annaud dalla stessa China Film Group Corporation e dello straordinario successo di pubblico (si parla di 100 milioni di dollari nelle prime quattro settimane di programmazione) che sta avendo in Cina.

La frase:
"Sai che cosa hai fatto? Hai catturato un dio per farne uno schiavo".

a cura di Fabio Giusti

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