La velocità della luce
La sfida era interessante e difficile, per un thriller triangolare, ipnotico e "on the road". Finora regista di spot pubblicitari e documentari per la TV, Andrea Papini debutta nel lungometraggio di finzione - di cui è anche co-sceneggiatore - con un’opera costata poco più di 600 mila euro, girata prima in esterni e poi in teatro di posa con la vecchia tecnica della retroproiezione (in omaggio ad Hitchcock), in un digitale - ma con ottiche cinematografiche – in ultimo trasferito in pellicola. Il film seguirà una doppia formula distributiva: nelle sale normali e in quelle del circuito digital-satellitare Microcinema (di cui Papini è presidente), che al costo di una sola stampa permette copie a volontà.

Come modello dichiarato, il cineasta attualizza i western all’italiana del viaggio e del confronto tra due uomini - uno giovane e l’altro anziano - con una donna fra loro, in una terra di nessuno. Eliminata la componente fatalista, il film si concentra - più che sulla vicenda - sull’ambiguità di personaggi che scelgono una sorte, immersi in una dilatazione del tempo e in silenzi inframezzati da dialoghi quasi da seduta psicanalitica. Tre solitudini, ognuna alla ricerca di qualcosa, si incontrano casualmente e "i rapporti - dichiara Papini - si consumano alla "velocità della luce" sui mezzi immateriali dei telefoni cellulari, dei palmari, di internet". Una comunicazione, quindi, mediata dalla tecnologia, in cui si incarnano alternati ruoli di cacciatore e preda, in un mortale gioco di seduzione e dissimulazioni.

Se però le personalità tratteggiate sono di confine, misteriose, vulnerabili, nella straniante claustrofobia di due automobili e una postazione di call center - contrapposta a scenari naturali che si fanno sempre più imponenti - l’atmosfera morbosa e onirica automatizza le interpretazioni, le costringe ad azioni ingenue, toglie qualsiasi colpo di scena e senso del pericolo.

La frase: "lei mi è simpatico e vorrei aiutarla, ma ora devo attaccare".

Federico Raponi

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