La sindrome di Stendhal
A tre anni dal vedibile "Trauma" (1993), il secondo lungometraggio interpretato da Asia Argento sotto la regia di papà Dario prende ispirazione dall’omonimo libro di Graziella Magherini, il cui titolo indica una affezione psicosomatica che, descritta nel XIX secolo dallo scrittore francese Stendhal nel suo "Napoli e Firenze: un viaggio da Milano a Reggio", pare sia in grado di provocare tachicardia, vertigini e confusione in determinati soggetti dinanzi alle opere d’arte.
La Argento veste, infatti, i panni dell’ispettrice di polizia Anna Manni che, sofferente della patologia, conduce le indagini su un misterioso serial killer, arrivando addirittura a cadere nelle sue mani, per poi scoprire che la sanguinosa catena di omicidi non si arresta neppure dopo averlo eliminato.
E, trattandosi di un thriller a firma di Mr. "Profondo rosso", a mancare non sono certo le scene forti, tra baci al sangue e un proiettile che oltrepassa una vittima da una guancia all’altra, ma, a differenza di quasi tutti i lavori che compongono la sua filmografia, questa volta vediamo tranquillamente in volto il responsabile delle varie uccisioni, pur essendo presente un’altra sorpresa finale.
Purtroppo, però, ci troviamo con ogni probabilità dinanzi a quella che si contende insieme a "La terza madre" (2007) il poco ambito titolo di sua opera meno riuscita, i cui difetti, come per buona parte del curriculum registico argentiano, vanno individuati in primis nei dialoghi spesso grotteschi e nella pessima direzione degli attori; da un imbarazzante Marco Leonardi, impegnato nei panni del fidanzato della protagonista, alla stessa Asia, la quale per il film venne perfino premiata con il Ciak d’oro.
Mentre le diverse sequenze realizzate per mezzo degli allora innovativi effetti digitali, ennesima testimonianza del virtuosismo da sperimentazione tipico dell’autore romano, risultano decisamente gratuite e tutt’altro che indispensabili (si pensi alle immagini delle pastiglie che scendono giù per l’esofago), immerse in un noiosissimo e inutilmente lungo elaborato che, se non fosse per la presenza delle crude scene di violenza, non si distaccherebbe affatto da un qualsiasi piatto prodotto televisivo.
La frase: "Tutte le opere d’arte hanno un potere su di noi, e più sono grandi più hanno potere".
Francesco Lomuscio
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