La sedia della felicità
Presentato al trentunesimo Torino Film Festival, “La sedia della felicità” è l’ultimo film di Carlo Mazzacurati, scomparso prematuramente mesi prima dell’uscita nelle sale dell’opera. Non ci si siede quindi propriamente a cuor leggero a vedere questo film, che però ha il merito di riuscire a trovare il modo di far sorridere lo spettatore.
Dino (Mastandrea) è un tatuatore da poco divorziato che vive dove lavora, Bruna (Ragonese) è un’estetista indebitata che non riesce a pagare i macchinari del mestiere. Le vite dei due, che hanno gli studi l’uno davanti all’altro, si incroceranno quando a Bruna viene rivelata dalla morente detenuta Norma Pecche (Ricciarelli) l’esistenza di un tesoro all’interno di una sedia in una vecchia villa. Da qui ha inizio la difficile ricerca della sedia, con l’inserimento prima come “avversario” poi come complice di Padre Weiner (Battiston) un prete rovinato dalle video scommesse, anch’egli a conoscenza dell’esistenza del tesoro. Tra equivoci e peripezie, i tre, con l’apparente superficiale brama di ricchezza, si troveranno a vivere un’inconsapevole quanto forte ricerca della felicità personale.
Aperto da una bellissima sequenza animata, il film vanta molti pregi. Su tutti quello di creare un mondo fiabesco e caricaturale ricco di personaggi simpaticissimi. Per riuscirci, Mazzacurati è stato aiutato in modo particolare dagli attori che hanno recitato parti piccole ai limiti della comparsata, ma che hanno saputo dare un tocco di originalità e brio alla pellicola. Esilaranti Fabrizio Bentivoglio e Silvio Orlando in versione venditori di “arte” in Tv, così come Antonio Albanese, Natalino Balasso, Milena Vukotic, Marco Marzocca, Raul Cremona e soprattutto Katia Ricciarelli, nella per lei atipica parte della xenofoba detenuta. Bene i tre protagonisti, con una Ragonese in gran forma, e Battiston e Mastandrea totalmente a loro agio nei personaggi.
Il topos dell’Italia del nord, presente in tutta l’opera del padovano Mazzacurati, è anche qui forte e determinante: benché due protagonisti su tre (Mastandrea e Ragonese) non siano del nord, si può dire che è il nord stesso ad assumere valore da protagonista, e non solo dal punto di vista paesaggistico (particolarmente presente alla fine) ma soprattutto per quello di “contenitore di diverse umanità” di cui il film fa sfoggio.
Se l’intenzione era quella di fare un film comico ma realistico, allora il prodotto finale non è particolarmente inerente agli obiettivi iniziali, se invece la volontà era quella di fare un film divertente, ricco, assurdo e grottesco ma comunque significativo del reale, allora l’operazione è riuscita.
La frase:
"Dopo otto ore di camminata a 75 gradi di pendenza non ci si lascia più… speriamo!".
a cura di Alessio Altieri
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