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La chiave di Sara











Si comincia la mattina del 16 Luglio 1942, quando la polizia francese fa irruzione in casa Starzynski con l’obiettivo di condurre l’intera famiglia all’interno del Velodromo d’Inverno, dove tredicimila ebrei francesi vennero ammassati in condizioni disumane, prima di essere mandati nei campi di concentramento nazisti.
In realtà, però, tratto dall’omonimo romanzo di Tatiana De Rosnay, il lungometraggio diretto da Gilles Paquet-Brenner non si svolge del tutto in quell’epoca, ma la alterna in continuazione con la Parigi del 2009; dove la Kristin Scott Thomas de "L’amante inglese" (2009) concede anima e corpo a Julia Jarmond, giornalista americana trasferitasi da lungo tempo in Francia che, impegnata proprio in un’inchiesta riguardante i dolorosi fatti del 1942, s’imbatte nella figura di Sarah Starzynski, la quale allora aveva soltanto dieci anni, trasformando le indagini sull’esistenza della piccola in una questione personale che potrebbe essere legata a un mistero della sua famiglia.
Quindi, forte di un cast diretto a dovere comprendente anche la Mélusine Mayance vista in "Ricky - Una storia d’amore e libertà" (2009) e l’Aidan Quinn di "Unknown - Senza identità" (2011), Paquet-Brenner struttura i circa 106 minuti di visione facendogli sfiorare i connotati del giallo, senza dimenticare piccoli momenti di tensione e permettendo a rivelazioni e segreti di emergere man mano che il racconto procede.
Del resto, il suo curriculum dietro la macchina da presa non manca di titoli rientranti nel genere (citiamo solo "UV - Seduzione fatale", del 2007, e l’horror thriller "Walled in", di due anni dopo), qui affrontato privilegiando i bei dialoghi forniti dalla sceneggiatura – concepita insieme a Serge Joncour – e con l’occhio principalmente rivolto, comunque, a una pagina di storia dell’Olocausto curiosamente poco tenuta in considerazione, soprattutto dalla Settima arte.
Ed è proprio quest’ultimo il motivo principale per spingere alla visione del film, storia di destini incrociati narrata senza concentrarsi banalmente su quelli che furono gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, ma insistendo, casomai, sull’importanza della memoria, del ricordo.

La frase:
"Era la persona più triste che io avessi mai conosciuto".

a cura di Francesco Lomuscio

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