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La casa delle bambole - GhostlandLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Lomuscio09 novembre 2018Voto: 7.0
Giusto il tempo di vedere in scena Pauline alias Mylène Farmer e le proprie due figlie Beth e Vera che ricevono in eredità una vecchia villa piena di cimeli e bambole antiche, che una coppia di intrusi penetra nottetempo nell’abitazione per attuare una violenta aggressione ai loro danni e prendere in ostaggio le ragazze.
Autore passato dal non esaltante esordio “Saint Ange” al profondamente disturbante “Martyrs” trasformatosi in brevissimo tempo (e giustamente) in splatter cult, fino ad approdare al suo primo lungometraggio girato in lingua inglese con “I bambini di Cold Rock”, il cineasta d’oltralpe Pascal Laugier parte da questa situazione da home invasion per mettere in piedi un’operazione che, in realtà, risulta difficile – se non impossibile – classificare all’interno di un preciso filone. Perché, con Beth che, cresciuta e divenuta scrittrice di successo dalle fattezze della Crystal Reed della serie televisiva “Gotham” lasciandosi il passato alle spalle, la oltre ora e mezza di visione che si lasciava inizialmente immaginare come un rape & revenge prende tutt’altra piega quando, sedici anni dopo il fattaccio, la donna riceve una richiesta telefonica di aiuto dalla sorella Vera, interpretata da Anastasia Phillips e la quale, a differenza sua, non sembra essere riuscita a superare lo shock, rinchiudendosi nelle proprie paranoie. E, con il ritorno in quella vecchia dimora dove, a quanto pare, l’incubo non è ancora terminato, è proprio una efficace atmosfera di paranoia quella che tende ad enfatizzare in maniera efficace il regista, che voleva in un primo momento girare il film attraverso la prospettiva della soggettiva, per poi rafforzare lo sguardo di quest’ultima ricorrendo semplicemente al formato di ripresa 2.35, aumentando anche il senso di claustrofobia. Atmosfera di paranoia trasudante inquietudine grazie, in particolar modo, alle immagini delle bambole di cui sopra, ulteriore e indispensabile arricchimento di una accattivante messa in scena che, con il fondamentale contributo della fotografia di Danny Nowak, richiama in un certo senso alla memoria il Dario Argento dei tempi d’oro. Concedendo spazio anche ad una certa brutalità dell’horror made in USA risalente agli anni Settanta (con più o meno vaghi echi di “Non aprite quella porta”), complice soprattutto la presenza dell’imponente “orco umano” cui concede anima e corpo Rob Archer, che, a modo suo a metà strada tra il Joe Spinell di “Maniac” e il Kane de “Il collezionista di occhi”, contribuisce non poco a conferire alla vicenda un sapore da favola di paura immersa in un contesto realistico e non priva di esplicito e simpatico omaggio allo scrittore Howard Phillips Lovecraft. Favola che, infarcita di immancabili sbalzi dalla poltrona garantiti dall’intramontabile utilizzo del sonoro, spinge in alcuni momenti anche a credere rientri nell’ambito delle ghost story; rivelandosi, invece, un serrato racconto per immagini capace di intrigare fotogramma dopo fotogramma nel cambiare di continuo registro... fino all’inaspettato twist ending di un insieme il cui maggiore pregio rimane, senza dubbio, una regia da vero conoscitore della macchina da presa. La frase dal film:
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