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Knight of CupsLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Pozzo08 novembre 2016Voto: 4.5
Rick (Christian Bale) è uno sceneggiatore in declino che cerca di dare un senso alla propria vacua e superficiale vita fra eccessi, riflessioni esistenziali ed amori passati e nascenti tutti accomunati dall’incessante girovagare fra party decadenti, piscine e lussuriosi rinfreschi in cui incontriamo la solita valanga di volti noti (e come sempre, con Malick, tagliati) fra cui spiccano, fra gli altri, Antonio Banderas, Joe Manganiello, Freida Pinto, Imogen Poots, Isabel Lucas, Teresa Palmer, Ryan O’Neal, Jason Clarke, le vecchie fiamme Cate Blanchett e Natalie Portman, il fratello complessato Wes Bentley, il padre padrone Brian Dennehy e l’ennesimo prete fugace e snocciola aforismi interpretato nell’opus precedente da Javier Bardem e questa volta dal grandissimo e sprecatissimo Armin Mueller-Stahl, ultimo di un nutrito gruppo di celebrità dirette senza una sceneggiatura né una direzione precisa e insignificanti tasselli di quello che vorrebbe essere un lungo viaggio alla ricerca di un senso e di una felicità probabilmente impossibili da raggiungere.
Perché forse, sembra suggerirci Malick, siamo tutti figli di un Dio minore condannati a vagare all’infinito, senza meta né futuro apparente. Parlare di Terrence Malick è diventato ormai compito frustrante e ripetitivo. Quello che una volta era una dei più talentuosi, geniali e visionari registi viventi sembra essersi definitivamente ridotto a preoccupante parodia di se stesso, cosa di cui bisogna prendere tristemente atto. Scandito in otto capitoli che si ispirano pretestuosamente al gioco dei Tarocchi (The Moon, The Hanged Man, The Hermit, Judgement, The Tower, The High Priestess, Death, Freedom), Knight of Cups prosegue la deleteria strada imboccata con The Tree of Life (un buon film colpevole però di segnare l’inizio di questa poetica del declino) e proseguita con l’atroce e vuotissimo To the Wonder, finora la sua opera peggiore. Tuttavia, se prima si poteva nutrire ancora qualche flebile dubbio, questo Knight of Cups segna con forza il definitivo punto d’involuzione e di non ritorno della carriera di Malick, che continua a cercare la poesia nei movimenti di macchina, negli elementi della natura e nei corpi fluttuanti delle sue spaesate e molto poco convinte star (il fante di coppe di Bale è né più né meno il Penn di The Tree of Life), ma che non arriva mai all’essenza delle cose diventando invece ridicolo e sfiancante tanto quanto la sua patina di misticismo spiccio e banalità New Age. Gli ambiziosi e sterminati temi di Malick sono ormai sempre gli stessi: il panteismo, l’esplorazione degli angoli più reconditi dell’anima, la mescolanza fra basso e alto nei corpi martoriati e ustionati dei poveretti della strada contrapposti al perfetto ordine del Cosmo, il fascino e la vuotezza della città luccicante e tentatrice (nella fattispecie l’illusorietà di Los Angeles e il kitsch di Las Vegas), la sfibrante e sermoneggiante voice-over, la riflessione sulla Fede che traina le nostre vite, l’incanto dinnanzi alle meraviglie e alla grazia del Creato, il rapporto dell’uomo con l’Arte che è la rappresentazione più concreta e tangibile di Dio in Terra, la contrapposizione fra la natura incontaminata e gli enormi grattacieli le cui altezze vertiginose sono invece il punto più alto per arrivare a Dio finora toccato dall’uomo, il legame fra fratelli e la sofferenza che li lega e il rapporto sempre turbolento e angosciante con i padri e in generale con il nucleo familiare. Tutto questo, però, resta come sempre in superficie. Non basta difatti avere l’eccezionale fotografia del solito Emmanuel Lubezki per fare un grande film, e sotto questo aspetto la nuova ‘rinascita’ malickiana potrebbero fare il paio con il Cinema di Alejandro González Iñárritu (anch’esso illuminato da Lubezki), un Cinema volto alla sola estetica che si perde in manierismi e virtuosismi risultando essenzialmente stucchevole ed irritante, un’opera che vorrebbe ambire all’Arte suprema e ad arrivare all’essenza delle cose e della vita ma che si incarta miseramente in se stessa lasciando annoiati e indifferenti. Non vi sono difatti profondità né ricerca interiore, ma solo un’immensa e fagocitante estetizzazione che tutto inghiotte e tutto livella, in primis i suoi insipidi e mediocri protagonisti, fantasmi che vanno e vengono errando senza una meta precisa e snocciolando enfatiche banalità, prova del fatto che tutti i punti di forza che segnavano la grandezza e anche lo spessore di filosofo del texano sono stati ormai abbandonati per quella che sembra a tutti gli effetti una deriva narcisistica ripetitiva e senza senso. Come disse il grande William Friedkin in un’intervista circa il nuovo Cinema di Malick: “Quando mi trovo dinnanzi ad un film di Malick vedo la telecamera che si spicca il volo mentre i personaggi parlano: quando vedo un film gradirei almeno capire chi sta parlando”. Sembra una barzelletta, ma è proprio questo il punto, perché se Malick vorrebbe riflettere sulla banalità e sull’inconsistenza dei suoi personaggi attraverso l’astrazione e la rarefazione, finisce ancora una volta per risultare scontato ed irritante come loro, sagome vuote di un Cinema innamorato solo di se stesso e della sua confezione sfavillante ma priva di qualsiasi contenuto, un Cinema che vorrebbe ammaliarci ma che risulta soltanto banale ed esasperante, e che ci invita a rispolverare quelli che un tempo erano i film che con pochi gesti e pochissimi mezzi arrivavano realmente ad essere poetici e universali, si pensi ad esempio a L’Infanzia di Ivan di Tarkovskij, autore di cui Malick sembra riprendere solo gli esperimenti meno riusciti e più compiaciuti come quel Nostalghia girato in diverse zone della nostra Toscana. Oppure, si potrebbero semplicemente ripercorrere i vecchi capolavori del Maestro, da La Rabbia Giovane a I Giorni del Cielo, da The New World a La Sottile Linea Rossa, dimenticando questa triste e devastante crisi d’ispirazione che ci invita a temere, ancora una volta, i prossimi Voyage of Time e Weightless, nuovi e a lungo covati tasselli che sembrano non discostarsi minimamente da questa irreversibile deriva ma che sembrano invece, ancora una volta, abbracciarla. La frase dal film:
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