Si alza il vento
"S’alza il vento, bisogna tentar di vivere": le parole di Paul Valéry accompagnano il giovane Jiro nel suo tentativo di afferrare e concretizzare un sogno, quello di 'costruire splendidi aeroplani'. In una Tokyo sulla quale incombe il fantasma della seconda guerra mondiale, Miyazaki ci racconta questa passione per il volo, per gli aerei e il vento; un’ossessione che accomuna il protagonista e il suo autore, sul quale il mondo dell’aviazione ha sempre esercitato un fascino ipnotico e, da "Nausicaa" a "Porco rosso", è sempre riuscito a far capolino nelle sue storie. Questa volta, però, modellini, eliche e motori non fanno solo da contorno alla vicenda, ma diventano il vero nucleo narrativo della storia.
All’inizio si rimane spiazzati: la narrazione sembra procedere per frammenti, senza uno sviluppo canonico. Ci si ritrova in balìa del vagare di Jiro tra il Giappone, la Germania e i suoi sogni, in mezzo a carte e progetti di aeroplani, ma secondo una struttura che sembra un flusso onirico e dove lo sviluppo dell’azione sembra dettata dall’interiorità del protagonista, dai suoi mutamenti d’umore e da quell’amore viscerale per il volo e per tutto il mondo che vi sta intorno.
Si tratta, senza il minimo dubbio, del lavoro più intimo di Miyazaki ed è necessario un po’ di tempo per impararne la grammatica e adeguarsi al modo in cui la storia prende forma.
A un certo punto, però, un’ondata di puro sentimento colpisce lo spettatore e lo trascina, senza possibilità di resistenza, in un flusso di colori, sensazioni ed emozioni dal sapore ancestrale. Stomaco e cuore sono le vittime prescelte di questo attacco e Jiro, con le sue motivazioni e la sua tensione verso l’amore, si ritaglia un posto dentro ogni spettatore, sembra piantarvi le radici e lo tiene stretto fin oltre i titoli di coda.
E’ l’amore, infatti, ad essere al centro della riflessione di Miyazaki, l’amore per una donna e l’amore per gli aeroplani che, uniti dalla forza impetuosa del vento, si fondono in un unico sentimento. Il vento s’alza e, come il procedere del film, porta con sé una forza vitale che penetra ogni personaggio e sembra scandire passaggi e sviluppi narrativi. Si tratta del richiamo della natura, questa volta presentato in tutto il suo concreto realismo, senza la mediazione dell’elemento fantastico.
E’ stupefacente la limpidezza e la sincerità disarmante con le quali Miyazaki porta avanti la sua riflessione: ci parla dell’uomo e dei suoi sentimenti, ma lo fa senza filtri o mezze misure, tratteggiando, con un pugno di (splendidi) schizzi, caratteri e rapporti in maniera lieve e incisiva a un tempo, e creando immagini di struggente bellezza che sembrano celebrare la meraviglia del vivere senza mai cadere nel consolatorio.
Lo sguardo di Miyazaki è sempre lucido e consapevole e, in questo film più che in tutti gli altri, la guerra ha una sua concretezza, è nascosta dietro l’angolo, pronta a scagliarsi contro popoli e terre, rendendoli aridi e strappandone la vitalità. Come il terremoto che ribalta Tokyo, come la battaglia di fuoco e metallo che infesta i cieli.
E nonostante la guerra e la malattia incombano, Jiro continua testardo per la sua strada, nella consapevolezza che la vita va vissuta nel presente, quando il vento s’alza, risvegliando gli animi e rinvigorendo i corpi.
La frase:
"Pensavo fossi all’inferno, in realtà sono in un mio sogno".
a cura di Stefano La Rosa
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