Jersey Boys
Dopo l’enorme successo del musical vincitore del Premio Tony, le cui repliche sono arrivate all’ottavo anno, Clint Eastwood decide di portare sul grande schermo “Jersey Boys”, la storia di quattro ragazzi che, dalle periferie malfamate del New Jersey, scelgono la musica alla mafia (pur non tagliandone del tutto i contatti, e anzi conservandone negli anni simpatia e protezione) creano un gruppo, “The Four Seasons”, e diventano famosi in tutto il mondo, riuscendo a vendere milioni di dischi e lasciando alcuni brani nella memoria comune. Dopo aver trovato un ciclo d’oro, tra il 2003 e il 2008 con “Mystic River”, “Million Dollar Baby”, “Lettere da Iwo Jima”, “Changeling” e “Gran Torino” la parabola registica di Eastwood si stava paurosamente involvendo, a partire forse da “Invictus” (2009) per arrivare agli inspiegabili “Hereafter” (2010) e “J. Edgar” (2011). Spettava dunque a questa pellicola il compito di risollevare l’arco, compito riuscito, seppur con qualche minima riserva.
Eastwood ha voluto, mantenendo lo spirito del musical, costruire un film facile, nell’accezione positiva del termine, un film nel quale lo spettatore non rischia di perdersi o rimanere indietro e, qualora lo facesse, viene immediatamente ripreso da uno dei quattro protagonisti che a turno, guardando dritto in macchina, si rivolge proprio allo spettatore spiegando la storia dal suo punto di vista. Un artificio metalinguistico preso direttamente dal musical che ha il suo buon risultato anche sul grande schermo: Frankie, Bob, Tommy e Nick hanno delle personalità totalmente diverse, e questa eterogeneità, che porterà alla distruzione del gruppo, rappresenta una interessante soluzione narrativa. I “faccia a faccia” protagonisti-spettatore hanno anche il merito di far sorridere, e trovano il loro apice nel finale, quando, in ordine sparso, ognuno traccia il bilancio della propria vita e carriera.
Jersey Boys è un film riuscito anche perché capace di riprodurre l’atmosfera di un’epoca. Per farlo Eastwood si è affidato al direttore della fotografia Tom Stern e allo scenografo James J. Murukami, entrambi già impegnati in “Changeling” e alla costumista Deborah Hopper. I meriti maggiori però ricadono sugli attori. Spicca John Lloyd Young che, dopo essere stato pluripremiato per la sua interpretazione del musical, è stato voluto da Eastwood per il film, con risultati eccellenti. Young, dopo anni di ripetizioni a teatro padroneggiava ormai il ruolo come nessun altro sarebbe riuscito a fare, e ha avuto la grande capacità di non pagare il passaggio sul grande schermo, aiutato da alcune soluzioni volute dal regista stesso che rendessero il film quanto più vicino possibile allo spettacolo, come il registrare tutte le canzoni dal vivo. Ottime tutte le altre prove attoriali, con due perle su tutte: il premio Oscar Cristopher Walken nel ruolo del mafioso Gyp De Carlo e Mike Doyle in quello del produttore discografico Bob Crewe, la cui figura è forse un po’ caricaturale, ma simpatica e tutt’altro che sgradevole. È inoltre un film che parla di una certa America di cinquant’anni fa, quella delle periferie povere in mano alla mafia che qui però, seguendo sempre il precetto della semplicità, vengono rappresentate nella sua superficiale bonarietà e soprattutto in funzione del più americano dei messaggi: se ci provi con tutto te stesso e non ti arrendi davanti alle difficoltà, puoi ottenere quello che vuoi. Quella che potrebbe essere una volgare e americana morale di fondo, il successo come autorealizzazione, qui non è tale, perché Eastwood con questo film non vuole insegnare ma divertire e raccontare, e c’è riuscito in pieno.
La frase:
"Una voce come la tua è un dono fatto da Dio, il mondo ascolterà la tua voce".
a cura di Alessio Altieri
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