Invisible Waves
C'è qualcosa di Murakami e qualcosa di Kitano in questo quinto film del giovane regista thailandese il cui nome letteralmente significa "[colui che] è il migliore".
Da quando Koji fugge da Macao per la Thailandia dopo aver ucciso con del veleno la donna del suo capo di cui era stato amante per mesi tutto sembra andargli storto. Nella cabina in cui è stipato il bagno i rubinetti sembrano averlo preso di mira, la brandina in cui dorme si rifiuta di abbassarsi e la serratura della porta disfunziona costringendolo ad umilianti conversazioni telefoniche con il personale della nave che non vuole credergli. Su quella nave Koji conosce una donna misteriosa il cui destino si rivelerà strettamente legato al suo.
Scopertosi tradito dal suo stesso capo, la cui fiducia lui stesso in precedenza aveva tradito Koji si trova nella singolare posizione di compiere una scelta tra la vendetta e la possibilità di chiudere il cerchio delle violenze scatenate dai suoi stessi atti.
Giocato, come d'abitudine per i film dell'estremo oriente, allo stesso tempo sui registri della comicità dell'assurdo e del dramma "Invisible Waves" è un film che parla della responsabilità e della cura che gli uomini devono avere nei confronti della felicità.
Il maggior punto di forza del film è nella cura quasi maniacale posta nella composizione del quadro: geometrie fotografiche, composizioni astratte, giochi di prospettiva, attenzione alla luce. Ogni inizio di scena è una vera e propria benedizione per l'occhio. Ma la fotografia è una cosa e il cinema un'altra e forse di questa estrema cura fotografica, alla fine, il film finisce per soffrirne.
In secondo luogo, per quanto attento, Pen-ek Ratanaruang non è Kitano e molte delle sue trovate ironiche in chiusura di scena risultano già viste e poco efficaci.

La frase: "E' meglio che viva un uomo felice piuttosto che un fantasma insonne".

Michele Alberico

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