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Insidious 3 - L'inizio











Autore dei primi due capitoli della serie, il cineasta di origini malesi James Wan ricopre soltanto il ruolo di produttore – se escludiamo una sua apparizione nei panni di un regista teatrale – in questo terzo tassello che, subito dopo il titolo, sfodera la didascalia "Qualche anno prima del caso Lambert".
Perché, abbandonate le terrificanti vicende dei due coniugi incarnati da Patrick Wilson e Rose Byrne, sotto la regia del Leigh Whannell sceneggiatore dell’intera trilogia – e qui debuttante dietro la macchina da presa – è un prequel a quelle ciò che prende progressivamente forma sullo schermo.
Un prequel volto ad introdurre l’aspirante attrice Quinn Brenner alias Stefanie Scott, la quale, intenta a parlare con la defunta madre, si rivolge alla sensitiva Elise Rainier, che, deceduta nel capostipite, possiede ancora una volta i connotati della mitica Lin Shaye di "Tutti pazzi per Mary" (1998) e "Ouija" (2014).
Del resto, pare sia stato pensato proprio per consentire a quest’ultimo personaggio di tornare in scena l’antefatto, che vede la donna costretta a tirare in ballo tutti i suoi poteri dal momento in cui la ragazza, confinata a letto a causa di uno spaventoso incidente, viene minacciata da un’entità maligna soprannaturale.
E, mentre il Dermot Mulroney de "Il matrimonio del mio migliore amico" (1997) fa da protettivo padre vedovo a Quinn, come di consueto non manca neppure l’intervento dei due simpatici acchiappafantasmi Specs e Tucker, nuovamente interpretati dal già citato Whannell e da Angus Sampson e il secondo dei quali indossa, addirittura, una maglietta raffigurante "I dominatori dell’universo" (1987) con Dolph Lundgren.
Acchiappafantasmi che forniscono l’immancabile spruzzata d’ironia, man mano che, tra rumori sospetti provenienti dal piano di sopra dell’abitazione della protagonista e immancabile immersione nell’altro livello che abbiamo imparato a conoscere come altrove, si procede con improvvise manifestazioni spettrali sempre più simili a quelle viste nei film dell’orrore giapponesi e sempreverde uso del sonoro per far balzare lo spettatore dalla poltrona.
Quindi, con una parte finale tendente a virare sul sentimentale ricordando, in un certo senso, "Ghost-Fantasma" (1990) di Jerry Zucker, l’esordio registico whannelliano può dichiararsi tranquillamente riuscito per quanto riguarda la confezione tecnica e la sua capacità regalare ancora spaventi... ma senza aggiungere nulla a quanto già inscenato tramite la coppia di lungometraggi a firma di Wan e limitandosi, al massimo, ad accentuare – in particolar modo durante la sequenza dell’esperienza extrasensoriale intrapresa dalla Rainier – il concetto di quello che sembra quasi un tunnel dell’orrore da grande schermo.

La frase:
- "Io vorrei parlare con una persona che ormai non è più qui"
- "Con chi?"
- "Mia madre, è morta un anno e mezzo fa".

a cura di Francesco Lomuscio

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