La donna che canta
"La donna che canta (Incendies)", opera di Wajdi Mouawad, è stata interpretata per la prima volta in Francia il 14 marzo 2003, presso l’Hexagone Scène Nationale de Meylan, e in Quebec il 23 maggio dello stesso anno al Théâtre de Quat’sous, durante la decima edizione del Festival del Théâtre des Amériques.
Ha finito poi per essere rappresentata in non pochi punti del globo, dalla Germania all’Italia, passando per la Svizzera e gli Stati Uniti, prima di ritrovarsi trasposta su pellicola sotto la regia del canadese Denis Villeneuve, curatore anche della sceneggiatura.
Pellicola che comincia dal momento in cui il notaio Lebel (Remy Girard) legge a Jeanne (Mélissa Désormeaux-Poulin) e Simon Marwan (Maxim Gaudette) il testamento della loro madre Nawall (Lubna Azabal), shockandoli nel porgergli due buste, una destinata ad un padre che credevano morto e l’altra ad un fratello di cui ignoravano l’esistenza.
E, come la sequenza di apertura, sono quelli in cui a parlare sulle immagini è la sola, bella colonna sonora i momenti più riusciti dell’operazione, che vede i due fratelli, spalleggiati dal notaio, risalire il filo della storia di colei che ha dato loro la vita, la quale si era chiusa in un mutismo inesplicabile durante le ultime settimane precedenti la sua morte.
Una storia destinata a lasciar emergere sia il destino tragico marchiato a fuoco dalla guerra e dall’odio che il coraggio di una donna eccezionale, man mano che i due setacciano la terra dei loro antenati sulle tracce di una Nawal ben lontana dalla madre che conoscevano.
Perché, tra passato e presente destinati ad incrociarsi continuamente e non pochi elementi di crudezza, il lungometraggio di Villeneuve vuole essere prima di tutto una ricerca iniziatica volta a coniugare l’orrore del conflitto bellico al singolare, costruendosi sulla progressiva emersione di diverse rivelazioni.
Fino a quella finale, decisamente atroce, di un elaborato che, senza dimenticare la potenza inaudita della resilienza, punta in particolar modo sulle ottime performance dei protagonisti, rivelandosi interessante più per la costruzione dello script che per la regia, caratterizzata dai lenti ritmi di narrazione tipici di un certo cinema d’autore adatto solo ai palati più raffinati.

La frase: "La chiamavano la 'donna che canta' perché cantava sempre".

Francesco Lomuscio

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