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Il pane nudo
Pubblicato nel 1960, "Il pane nudo" è stato il primo romanzo, nonché autobiografia, di Mohamed Choukri, scritto nel cimitero di Tangeri utilizzando come scrittoio il marmo delle lapidi e come uditorio il silenzio dei morti. Tradotto in inglese, riscosse un notevole successo in tutto il mondo e fece scalpore, tanto da diventare una delle più importanti opere letterarie arabe contemporanee, sebbene sia stato vietato in molti Paesi dell'Arabia, in quanto considerato un libro della Hushma, della vergogna, e dell'Haram, del peccato.
Oggi, a tre anni dalla morte di Choukri, avvenuta a Tangeri, dove visse fin dalla nascita, Rachid Behadhj, regista, tra l'altro, del drammatico "Mirka" (2000), si occupa della trasposizione cinematografica de "Il pane nudo", di cui osserva: "Choukri ha avuto la fortuna di scoprire all'età di vent'anni, in una prigione di Tangeri, la straordinaria capacità di comunicazione della parola scritta; il contatto con la scrittura e la lettura fanno nascere in lui la rabbia necessaria per liberarsi da una miseria ancora più grande, quella dell'ignoranza e dell'analfabetismo. Il pane nudo è soprattutto la rivolta individuale condotta dal piccolo Mohamed contro il padre, un padre onnipotente eretto a simbolo di tutte le oppressioni". Un padre alcolizzato e violento che, purtroppo, tormenta la crescita del piccolo Mohamed, in un Marocco a cavallo tra gli Anni Quaranta e Cinquanta, mentre la madre si trova costretta a dover lavorare per poter mantenere tutta la famiglia. E' proprio questa la parte più riuscita del lungometraggio, nella quale assistiamo all'infanzia condotta dall'innocente protagonista in povertà, tra i sei (Bilel Lahsini) ed i dodici anni (Faycal Zeghadi), senza la possibilità di poter pensare al gioco ed alla spensieratezza, come tutti i bambini del mondo, continuamente messo in guardia nei confronti di tutto ciò che è peccaminoso da un lato, mentre, dall'altro, c'è chi arriva a dirgli: "Tutte le cose buone sono peccato"; e crude immagini come quella in cui lecca il latte caduto in terra mentre i vetri gli tagliano le labbra non lasciano certo indifferente il cuore dello spettatore. Quindi Behadhj, supportato da due vecchie conoscenze del nostro indimenticabile cinema di genere come il montatore Eugenio Alabiso (tante collaborazioni, da Sergio Leone a Umberto Lenzi, a Sergio Martino) ed il direttore della fotografia Pierluigi Santi (qualche commedia sexy e diversi poliziotteschi, da "La nuora giovane" a "Napoli spara"), sembra rifarsi in un certo senso al Neorealismo, mostrandoci la progressiva crescita dell'analfabeta Mohamed, il quale, tra vagabondaggio e continua ricerca di cibo, arriva a trovare la serenità soltanto attraverso il ricorso ad una squallida sessualità malata, frequentando bassifondi e luoghi malfamati di Tangeri nei quali entra in contatto perfino con pedofili e prostitute, di cui una di evidente derivazione felliniana. Ma proprio quando, ventenne, assume le fattezze del sempre ottimo Saïd Taghmaoui ("L'odio"), rinchiuso in prigione per aver partecipato a delle sommosse politiche, comincia ad andare perduto tutto il lirismo presente nella prima parte (anche se affascina il fatto che la prima parola che impara a scrivere sia proprio "padre"), con conseguenti cadute di ritmo, le quali tendono a limitare in parte il giudizio positivo sull'opera: da un lato racconto autobiografico di un uomo alla ricerca di riscatto dal proprio destino già segnato e senza speranza, dall'altro non disprezzabile allegoria su celluloide riguardante il cinico e tutt'altro che puro mondo degli adulti.
La frase: "I bambini quando muoiono si trasformano in angeli, gli adulti in diavoli".
Francesco Lomuscio
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