Hotel Bau
In Cina il 2009 sarà anche l’anno del bue, ma al cinema è sicuramente quello del cane. Dopo lo straordinario incasso americano di "Beverly Hills Chihuahua" e la candidatura agli oscar di "Bolt", ecco che con "Hotel Bau" i cani ritornano ad abbaiare sul grande schermo. A differenza dei due film sopra citati, nonché di tante pellicole sull’argomento, questa volta gli animali non parlano, mentre l’aspetto principale della vicenda in questione è che tutti assieme (escluso chi però ha un padrone) occupano un vero e proprio albergo abbandonato (da qui l’onomatopeico titolo italiano, mentre l’originale è un più chiaro "Hotel per cani").
Cani soli accuditi da una coppia di sorella e fratello, altrettanto soli. Lei sedicenne, lui cinque anni più piccolo. Affidati entrambi ad una coppia di rockettari falliti, dopo varie adozioni andate a vuoto per la loro estrema irrequietezza, i due trovano nell’affetto dei tanti quattro zampe trovati in giro l’affetto di quella famiglia che non hanno. Polizia, accalappiacani (è un must per i film sul tema, soprattutto la scena da tana liberi tutti al canile), primi amori e buon senso paterno, fanno da corredo a questa commedia intrinsecamente disneyana (ma non è della casa di Topolino, bensì Dreamworks) rivolta ad un pubblico più che mai giovane. Simpatica la trovata dell’esperienza olfattiva dei cani suggerita con la predizione visiva dell’evento, convenzionale (sa molto di Tom e Gerry) l’utilizzo dell’accompagnamento musicale per sottolineare i vari stati d’animo degli animali, ma non per questo sbagliata.
Curate scenografie, costumi e coreografie (dopotutto i cani nelle scene di gruppo, sembrano un vero e proprio corpo di ballo), tanto da farne un prodotto senza dubbio ben confezionato e adatto a famiglie con figli piccoli. A livello di recitazione, "Hotel bau" è poi trampolino di lancio per Emma Roberts, nipote di Julia e sempre più vera e propria teen cover girl.

La frase: "Dovevamo proteggere i cani. Abbiamo fatto il nostro dovere. Tornando indietro, rifarei esattamente le stesse cose".

Andrea D’Addio

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