Green Zone
Dopo United 93, e a seguito del successo ottenuto con i due Bourne Ultimatum e Bourne Supremacy, Paul Greengrass torna a parlare di attualità nel film bellico Green Zone. Esiti altalenanti per un (comunque) riuscito esercizio di stile.

Iraq, oggi. Il luogo tenente Roy Miller nota che nelle incursioni fatte dalla sua squadra in luoghi suggeriti dalla Intelligence come possibili siti di armi di distruzione di massa, non c’è nulla. Come mai? Si chiede, ma l’esercito fa orecchie da mercante e a Miller non rimane altra soluzione che dare retta a un civile iracheno che ama il proprio Paese e che, per questo, vuole aiutare gli americani a capirci qualcosa...

Improbabile messa in scena per uno dei film più "pompati" e (lasciatecelo dire) sopravvalutati della stagione. Innegabilmente Paul Greengrass è regista capace e dopo i due Bourne, con Green Zone torna a fare proprio l’uso cinetico della telecamera a mano (già ampiamente sperimentata da Tony Scott), sempre "a fuoco", limpidamente utilizzata nel tracciare la strada narrativa da seguire.
Peccato che il film (malgrado i temi cari al regista: CIA, servizi segreti, ecc.) fallisca in una sceneggiatura che definire faziosa e prevedibile è poco. L’agente Miller venendo meno a qualunque legge del buon senso (e lasciando a casa quelle militari) si affida ciecamente a uno sconosciuto che (guarda caso) parla bene l’inglese e rivela niente meno che la posizione del Generale Al Rawi. Dietro a tutto questo chi si nasconde? Ma dai, i servizi segreti americani!
Contorno di giornalista (ovviamente donna) ben pensante, con condimento di soldato patriota modello John Wayne (non ti si addice Matt!) e il piatto è servito. E alla fine del pasto si rimane appesantiti con la sensazione d’aver fatto un’inutile abbuffata.
Carente anche il cast, con un Matt Damon incapace (questa volta) di trainare il pubblico e il resto che preferirebbe rimanere sulle sue.
Insomma, altro che Agente Bourne, questa volta Greengrass confeziona un film adatto solo agli estimatori del bellico. Un esercizio di stile, diciamo. Rinnovare un genere come questo del resto non è facile, e quando ci si riesce, magari, si vince anche l’Oscar. La Bigelow ne sa qualcosa.

La frase: "Rivoglio il mio taccuino".

Diego Altobelli

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